Altra cosa è l’Uomo Universale che si esalta verso il sublime, in piena espansione di stati non umani. Egli è il principio di tutta la manifestazione; la sua natura è totale, incondizionata e trascendente, avendo superato ogni opposizione esistente. La realizzazione di quest’Uomo Universale si esplica simbolicamente attraverso un segno comune a molteplici tradizioni e culture, la croce. Tale segno riunisce, in modo perfetto, la totalità degli stati dell’essere, ordinati armonicamente secondo i due sensi dell’«ampiezza» e dell’«esaltazione». Il centro della croce è il punto dell’equilibrio perfetto, l’Invariabile Mezzo in cui si risolvono e si conciliano tutte le opposizioni; è «la stazione divina dell’esoterismo islamico», atta a risolvere qualsivoglia antinomia. Questo centro dirige ogni cosa con la sua «attività non agente», che in realtà è pienezza di attività. L’apparente contraddizione di un non-agente che agisce – e si espande metafisicamente – si può spiegare con il motto di Lao Tse (conosciuto anche con il nome di Laozi e simili): «Il Principio è sempre non agente e tuttavia tutto è fatto da lui».
Il perfetto saggio taoista è colui che ha raggiunto il punto centrale, ottenendo l’indissolubile unione col Principio, origine prima e fine ultimo della vita e dell’essere. Il punto è riposo, il massimo del vuoto e del distacco da tutte le cose manifestate, che invece fanno parte della «corrente delle forme». Tutti gli esseri si manifestano a colui che risiede in questo centro o punto non manifestato. Il segno esteriore del raggiungimento del Principio è l’imperturbabilità spirituale di fronte al polimorfismo delle varie forme di vita contingente. Chi raggiunge «la conoscenza del Principio universale unico» supera le distinzioni dovute ai differenti punti di vista e al movimento; il punto è immobilità, oltre che perfezione.
Il punto è legato al numero uno, all’Uno, perché è l’origine di tutte le origini. Prima dell’uno che cosa si può contare? Niente. Prima di questo punto soltanto Ain (niente o nulla in ebraico), il mistero dell’etere puro e irraggiungibile, incomprensibile per sua stessa definizione. Il punto originario e primordiale si identifica col «santo palazzo» della Qabbaláh ebraica e «non è localizzato», perché non dipende affatto dallo spazio, ma si fa centro di quest’ultimo soltanto in modo simbolico, ossia diventa «centro di tutta la manifestazione universale», da cui le sei direzioni procedono per irraggiamento e a cui pervengono ritornando al centro e annullandosi in esso.
Via via che ci si allontana circolarmente dal centro inizia il movimento di tutte le cose transeunti, i punti di vista si moltiplicano, nascono le distinzioni contingenti, il fuoco e l’acqua si definiscono come contrari. Ecco tutte le rivoluzioni del mondo e ogni manifestazione che emana dal centro. Man mano che ci si avvicina a esso, però, c’è un riassorbimento, un processo inverso di annullamento che presuppone il raggiungimento dell’immobilità; il cerchio si stringe, il giro è sempre più piccolo, più piccolo fino a sciogliersi simbolicamente nell’unità del punto dove niente si muove più. Il fuoco e l’acqua, prototipi dei contrari, nella vita delle sensazioni si neutralizzano vicendevolmente nella sublimità del punto, diventando finalmente complementari. Tale movimento di ritorno verso l’origine è la via seguita dal saggio per approdare alla sintesi finale, raggiungendo l’unione con il Principio. Espansione e concentrazione formano, dunque, le due fasi complementari di ogni manifestazione. Chi raggiunge l’unità non conosce né lo stato di guerra né nemici, dentro o fuori di sé. Egli ha ormai intrinsecamente la propria legge, essendo la sua volontà tutt’uno con il volere universale.
Il punto, nella dottrina cosmogonica della Qabbalàh ebraica, esiste soltanto in virtù del suo irraggiamento e diventa comprensibile soltanto quando si situa nell’estensione di cui, a livello puramente simbolico, diviene centro. Il punto primordiale dà luogo a tre punti che rappresentano l’Inizio, il Mezzo e la Fine; questi tre punti uniti sono Yod, l’Uno manifestato, principio della manifestazione universale o – teologicamente parlando – Dio, Centro del Mondo, Logos sempiterno.
Il cerchio è la perfezione e la corsa attorno alla chiesa delimita lo spazio sacro. Si separa il sacro dal profano, affinché la magia curativa o distruttiva abbia effetto. La magia della croce, con i molteplici suoi livelli simbolici, viene esplorata da René Guénon in un testo edito in Francia nel 1931 e pubblicato postumo nella sua prima edizione italiana – soltanto nel 1964 – da Edizioni Studi Tradizionali. Le Symbolisme de la Croix coglie analogie fra culture differenti, attraverso un linguaggio che si muove tra filosofia, occultismo, geometria e matematica, sfatando il luogo comune che vede nella croce soltanto un simbolo storico cristiano.
«Considerare soltanto l’aspetto storico della croce, pur nella sua validità, è limitarsi a vederne la parte più superficiale. Ma un simbolo come questo, reperibile a tutte le epoche e presso tutti i popoli della terra, ha significati ben più profondi e possibilità di trasposizione analogica tali da farne veramente qualcosa di universale».
Il testo sfugge a ogni tentativo di classificazione. Del resto, lo stesso Guénon rifuggiva dalle etichette, non amava definirsi né filosofo né orientalista né occultista. Anzi, per certi versi, fu nemico degli occultisti e di certe loro interpretazioni, preferendo basarsi su un sostrato filosofico e scientifico di portata differente rispetto alle spesso aleatorie teorie degli specialisti dell’occulto.
Per chi ama fare viaggi nel mondo della metafisica simbolica Guénon è irrinunciabile, anche nell’epoca dell’immagine. In fondo anch’egli parla per immagini, cogliendone la profondità. Le considerazioni guénoniane sul centro della croce – che corrisponde al centro della «ruota cosmica» di certe filosofie orientali –, così come l’etica del movimento e dell’immobilità, rimandano ad alcuni aspetti della filosofia di Blaise Pascal che vede nel tema del divertissement un movimento distrattivo dall’anima: l’uomo è vero solamente nella stasi.
La filosofia della stasi, in quest’epoca di movimentati e chiassosi stordimenti, probabilmente è perduta. È l’iperattività la regola costante che consente di abbattere il vuoto. Il centro, man mano che cresce il movimento, è sempre più lontano.
Chi si ferma è perduto!