La varietà degli argomenti affrontati e la loro assoluta diversità, si va da momenti grotteschi come quello del pescegatto ad altri realistici con problemi di coppia e così via, sottendono però un comune denominatore che si esprime subdolamente in un malessere strisciante dentro ad ogni parola sputata, urlata, insalivata dalla fragilità umana; il logos si adombra, sgocciola lacrime nere, si manifesta marcescente in espressioni di rabbia coniugale, di gelosia paterna, di delusione personale, e illustra pieghe che hanno un retrogusto maligno dove Fliegauf suscita un’inquietudine toccabile, scomoda, penetrante (e due sono gli episodi a cui riferirsi dove affiora l’indicibile potenza del fuori campo: il primo è quando due amiconi parlano di qualcosa che è lì davanti a loro ma che noi non vedremo mai, mentre il secondo giunge in coda ad uno dei segmenti meno incisivi – quello in cui una ragazza rimembra la nonna cattiva – che però ha nello sguardo allucinato della giovane tutta l’inesplorabilità dell’abisso).
Rengeteg è cinema intraprendente perché schiva il preconfezionamento della Spiegazione, racconta tracciando una serie di aneddoti la cui disorganicità rende comunque un senso di insieme che non trasmette niente di buono, ed è disinteressato a chiudere convenzionalmente con un sicuro the end preferendo la scomodità del dubbio. Merita._____
[1] Una similare versione di “film corale” è stata fornita da Ruben Östlund con il suo Involuntary (2008).