di Gerardo Lisco. In questi giorni girano una serie di notizie che, pur se in contraddizione tra di loro, lasciano intendere che l’Italia sia prossima ad uscire dalla crisi. Bankitalia ci informa che finalmente il Pil è tornato a crescere grazie al "quantitative easing". L’Istat ha dichiarato che la produzione industriale è tornata a crescere grazie al calo del prezzo del petrolio; anche se, sempre a causa del crollo del prezzo del greggio, siamo in deflazione.
Questi ed altri dati mi spingono a pensare che i conti non tornino. Il q.e. sta già producendo gli effetti sperati? È bastato averlo annunciato? Faccio notare che il q.e. partirà solo da marzo 2015 e durerà fino a settembre 2016 con possibili proroghe. In questo momento di q.e. nemmeno l’ombra e non è da escludere che possa partire, secondo alcuni analisti, con sei mesi di ritardo. Uno studio di Confcommercio ha rilevato che non ci sono dati che indichino un aumento sensibile della dinamica dei prestiti a famiglie e imprese e che probabilmente si inizierà a vedere qualcosa solo nel secondo semestre dell’anno in corso. Sarà questo il vero segnale della ripresa economica. Se leggo questi dati insieme al livello del reddito degli italiani, sostanzialmente in calo, mi rendo conto che non ci sono interventi concreti a sostegno della domanda. Per quanto riguarda la ripresa produttiva questa avviene grazie al calo del prezzo del petrolio e al cambio euro/dollaro che è tornato a quello del debutto della moneta unica. In sostanza i dati positivi non dipendono dall’azione del Governo ma da fatti congiunturali. La situazione attuale è di imprese che limitano a riportare a regime gli impianti, richiamando qualche lavoratore dalla cassa integrazione; ma, passata la congiuntura favorevole, dovuta appunto al calo del prezzo del greggio, da qui a metà anno ci si aspettano interventi dal governo. La soluzione del Governo è il Jobs Act. Allora viene da chiedersi quale sia il modello di società e di sistema economico che Renzi ha in mente. Al di là dei proclami, mi sembra di poter affermare che il sistema industriale italiano sia avviato a un ruolo subalterno rispetto ai sistemi economici più avanzati. In sostanza una sorta di sistema industriale maquiladora. Dati gli attuali vincoli monetari la concorrenza sui mercati internazionali può essere fatta in due modi: moderazione salariale e riduzione dei diritti dei lavoratori oppure investimenti qualitativi in ricerca e innovazione e politiche redistributive. Il Governo Renzi ha scelto la prima modalità. Il Jobs Act è stato presentato dal Governo come la flex security italiana. In particolare Ichino si è battuto per la sua introduzione facendo riferimento proprio al modello danese. Il modello danese si regge su tre pilastri: flessibilità del mercato del lavoro, generosi ammortizzatori sociali e politiche attive funzionali alla ricollocazione del lavoratore che ha perso il lavoro. La Danimarca impiega risorse finanziarie tre, quattro volte superiori a quelle italiane in termini percentuali. Se adesso analizziamo il sistema introdotto dal Jobs Act, notiamo immediatamente la scarsità di risorse finanziarie per far fronte alle esigenze dei lavoratori per il loro mantenimento e per la ricollocazione nel sistema produttivo. A ciò si aggiunge un altro dato altrettanto importante e rilevante che riguarda la spesa pubblica italiana in Investimenti e Innovazione. In Italia si ha la pretesa che investimenti per innovazione e ricerca debbano essere appannaggio del solo mercato. Questo semplice dato la dice lunga sui limiti delle politiche economiche del Governo italiano. Perfino negli Usa è l’intervento pubblico, mirato e di qualità, che fa da volano per politiche industriali legate a Innovazione e Ricerche. Per garantire il funzionamento di un mercato del lavoro flessibile sono necessarie risorse finanziarie che possono venire solo da politiche redistributive e da investimenti pubblici capaci di creare posti di lavoro di qualità. Le due cose sono strettamente legate tra di loro. Ma di interventi di questo tipo non se ne vedono. L’Italia in materia di investimenti per ricerca e investimenti continua ad essere “la cenerentola d’Europa”. Il Jobs Act si presenta come una sorta di “cavolo a merenda” slegato da politiche di sviluppo e di crescita sociale ed economica all’insegna dell’innovazione e dell’eguaglianza sociale. Il Jobs Act fa parte di quei provvedimenti che l’eurocrazia ha imposto al Governo italiano lo scorso anno per evitare che venisse commissariato dalla Troika. Ricordo, in primo luogo a me stesso, che a partire da maggio dello scorso anno i media, per tutta l’estate, condussero una campagna di informazione dell’opinione pubblica mirante ad accettare la Troika come soluzione alla crisi italiana. Tra le argomentazioni a sostegno della Troika venivano portati i dati positivi dell’economia Greca, Spagnola, Portoghese e Irlandese. Da tutto questo si evince che Renzi non ha nessuna visione e l’unica cosa che gli preme è continuare a galleggiare, a costo della pelle degli italiani.