Già il titolo “Matri-arkè” è di per sé evocativo, ma forse lo è ancor di più il sottotitolo: “Il futuro di un’immagine arcaica” è che stato scelto per il convegno tenutosi il 4 e il 5 ottobre a Pistoia. Il convegno è stato splendidamente organizzato dalle “Zie di Sofia” in collaborazione con il comune di Pistoia e il polo universitario Uniser.
Raccontare chi sono e cosa fanno le “Zie di Sofia” è utile a comprendere in che modo è avvenuto il concepimento e la gestazione del convegno “Matri-arkè”. Un gruppo di donne pistoiesi fondano un circolo di lettura dove affrontano opere filosofiche, di narrativa fino ad approdare alle opere di Maria Gijmbutas e poi alle opere di Heide Göettner-Abendroth, considerata unanimemente (in ambito accademico e non) la fondatrice degli Studi matriarcali moderni. Nasce così il desiderio di un momento collettivo di incontro per confrontarsi sul matriarcato e sui suoi principi, che fornisca nuove energie per il cambiamento complessivo della società che molte donne (femministe, ambientaliste, donne delle istituzioni, madri, streghe, sacerdotesse eccetera) desiderano per la nostra società.
Una due giorni dal programma densissimo che inizia con l’anteprima nella serata di venerdì 3 ottobre. Una visita guidata alla mostra “Le Pomone e il mito della grande madre” e la proiezione del documentario “Nu Guo. Nel nome della madre” e l’incontro con la regista Francesca Rosati Freeman. Il documentario racconta la vita e la società dei Moso, una minoranza etnica di circa 40000 persone che vive nella regione dello Yunnan (Cina). Essi sono una delle società matriarcali ancora esistenti oggi nel nostro pianeta. Qui il trailer del video
Donne Moso
Quello che segue è un report delle giornate di sabato e domenica a cui ho partecipato, sperando di fare cosa utile per coloro che non hanno potuto parteciparvi e come sentito ringraziamento alle Zie di Sofia per il meraviglioso lavoro svolto.
Sabato 4 ottobre – Polo universitario Uniser
Mattina
Durante la mattinata, organizzata in maniera specificatamente congressuale, abbiamo potuto ascoltare le relazioni di 4 studiose che, secondo
Heide Göettner-Abrendroth ha presentato una relazione dal titolo “Societies in Balance. Re-thinking Matriarchy in modern Matriarchal Studies” in cui ha illustrato parte del suo enorme lavoro di storica delle culture sulla scoperta e sull’analisi delle società matriarcali del passato, confrontate con quelle odierne, sulla scia del lavoro iniziato da Maria Gijmbutas.
In una premessa preliminare la studiosa ci ricorda che l’interesse per il matriarcato nasce già nel secolo scorso a partire dagli studi di Bachofen e Morgen, saggi tradizionalmente conosciuti sul matriarcato. Questi testi però, ci dice Abendroth, spesso troppo ideologici, sono stati impiegati per elaborare discorsi sul matriarcato e sul diritto della madre privi di un approccio scientifico, sono stati usati e abusati da partiti e gruppi con i più disparati intenti e sono stati inquinati dal patriarcato con la instancabile ricerca dell’essenza del femminino.
La ricerca di Abendroth si basa su un massiccio apparato metodologico e si sviluppa dal confronto tra le società matriarcali di oggi e i reperti archeologici.
Primo risultato di questo innovativo lavoro di ricerca è la prova che il patriarcato non è sempre stato il sistema con cui si sono governate le società del passato, ma è solo una delle strutture umane, che nella fattispecie si è imposta circa 4000 anni fa. Prima e per un periodo di circa 40000 anni, le società umane erano organizzate secondo quella forma che è stata definita, appunto, società matriarcale.
La società matriarcale non è una forma organizzativa uguale e contraria rispetto alla società patriarcale alla quale si sostituirebbe, un cosiddetto “dominio dell madri”, ma essa è una società egualitaria e complementare tra generi e generazioni.
Quando si cerca di spiegare il significato del termine ‘matriarcato’ si predilige etimologicamente il secondo (e secondario nella parola patriarcato) significato di arkè, non ‘dominio’ ma ‘inizio’. Quindi non “dominio delle madri” ma “all’inizio le madri” anche per segnare in maniera incontestabile la lontananza e la diversità di questa forma di società, precedente a quella patriarcale.
In senso generale e preliminare, la maternità, che rappresenta un fatto biologico, viene assurta a modello culturale, un modello sicuramente più appropriato e consono alla vita dell’essere umano rispetto a quello patriarcale,soprattutto per quanto riguarda la relazione tra i generi e il rapporto con la natura. In questa rappresentazione è enorme la distanza dal concetto di maternità e di senso materno sentimentale ed emotivo, a cui siamo abituate dalla rappresentazione patriarcale.
Heide Abendroth ci fornisce la definizione specifica di società matriarcale che costruisce esaminando i diversi livelli di cui si struttura una società, quello economico, quello sociale, politico e religioso/culturale.
A livello economico la società matriarcale prevede un’economia di sussistenza che si fonda sul bisogno e non sull’accumulo di beni. Si basa sulla necessità che tutte e tutti abbiano quello di cui hanno bisogno. E dato che secondo il detto dei Minangkabau “Madre Terra non può essere posseduta o tagliata a pezzi” non esiste la proprietà privata. Le donne dispongono dei beni economici: le case, i campi, il cibo e gli animali che vengono distribuiti equamente in vista del benessere di tutti i membri del clan.
A livello sociale la società è organizzata in matri-clan che vivono in gruppi che vanno dalle 10 alle 100 persone. Si ha quindi un sistema che si fonda sulla matrilocalità. I componenti della famiglia vivono e rimangono nella casa della matriarca, presso la quale si lavora e a cui si fa riferimento per tutta la vita. Le unioni o i matrimoni sono organizzati secondo la forma del visiting marriage: la coppia si incontra durante la notte, ma ognuno (sia l’uomo che la donna) continua a vivere nel proprio matri-clan. Inoltre il matrimonio non ha vincoli, nel senso che entrambi i componenti della coppia possono, nel corso del tempo, scegliere altri compagni o altre compagne.
Siamo di fronte dunque a società orizzontali non gerarchiche basate sulla matrilinearità, ovvero sulla trasmissione della parentela da parte materna.
A livello culturale, i valori della società matriarcale sono i valori “materni”: la cura, l’accoglienza, la generosità ed essi valgono non solo per le madri, o per le donne, ma per tutti i componenti della società. È per questo che la cura dei bambini, per esempio, è appannaggio non solo delle madri biologiche ma di ciascuna donna e di ciascun uomo della comunità, madri sociali e padri sociali dei bambini del clan.
Le religioni non sono gerarchiche o basate su una divinità maschile, onnipotente, invisibile e trascendente. La divinità è immanente, è una Grande Madre che ha prodotto l’universo attraverso la nascita, così tutto è spirituale e non esiste divisione tra sacro e profano. Tutto assume significato rituale.
“Madre Natura è la nostra Maestra” dice la popolazione dei Minangakabau.
Infine a livello politico le società matriarcali si basano sul principio del consenso e sull’unanimità delle decisioni. Ogni componente del clan è importante per prendere delle decisioni. Questo processo che nell’ambito del clan vede la mediazione della matriarca, si ripropone anche nei villaggi e nelle regioni più ampie: ogni clan sceglie un proprio rappresentante (un uomo, spesso fratello della madre) che riporta le decisioni del clan e media tra il proprio clan e gli altri al fine di ottenere una decisione unanime e condivisa.
Abendroth ci ha fornito un gustoso assaggio della sua teoria. Per approfondire: Heide Göettner-Abendroth, Le società matriarcali.
Con la sua relazione dal titolo “La sapienza delle madri alle radici dell’Europa” Luciana Percovich prende le mosse dall’apparato metodologico e teorico di Heide Göettner-Abrendroth e ci mostra esempi più che convincenti di compatibilità tra i reperti materiali e archeologici e gli studi matriarcali moderni, mostrandoci anzi che spesso alcuni reperti trovano significato e senso solo se sostituiamo alla patina esplicativa patriarcale quella illuminante del matriarcato.
Il bell’intervento di Luciana perde molto nella mia restituzione soprattutto perchè la studiosa ci ha mostrato molte immagini interessanti e suggestive di pitture rupestri, insediamenti, disposizione spaziale delle tombe. L’impiego nelle pitture di colori come il rosso e il nero, la rappresentazione della ciclicità della natura e le frequenti rappresentazioni decorative di donne partorienti sono tutti elementi iscrivibili nel richiamo simbolico del ciclo vita – morte – rinascita, cuore culturale e simbolico delle società matriarcali.
Ma perchè – ci chiediamo insieme a Luciana Percovich – l’archeologia (ma anche l’antropologia, la filosofia, la storia) non hanno ancora riconosciuto unanimemente questa fase iniziale della storia umana?
Perché il riconoscimento dell’esistenza di società matriarcali mette pericolosamente in discussione i presupposti metodologici su cui si basano le suddette scienze e soprattutto si costringe ad interrogarsi sul concetto di “civiltà” fissato a partire dall’Ottocento e modellatosi sulla definizione evoluzionistica della storia come progresso costante (rigorosamente simboleggiato dalla linea retta).
Tra il 6500 e il 3500 a. C. si sviluppa una raffinata e complessa civiltà, detta la civiltà della Dea. Nei reperti di questa civiltà non si trova traccia di guerre, armi, domini, viene sviluppato, oltre alle arti e alla scrittura figurativa e un complesso apparato simbolico che pone al centro la donna. È più che probabile che tutte le civiltà umane abbiano fatto il loro “ingresso nella storia” proprio in questa forma di organizzazione matriarcale, poiché tutte erano dotate di miti di creazione femminile, forme artistiche con una simbologia ricorrente (legata al parto, alla ciclicità delle stagioni) e relazioni parentali matrilineari.
Nel Neolitico questa grande e durevole civiltà pacifica basata sull’agricoltura si scontra con i popoli indoeuropei nomadi dediti alla pastorizia, che avevano addomestico il cavallo, che impiegavano i metalli duri e che erano organizzati in una struttura gerarchica e guerriera, esogamica, patrilineare, patrilocale, che pregano divinità violente del fulmine o del tuono e il cui simbolico è organizzato per coppie oppositive: buio – luce, basso – alto, freddo – caldo, femminile – maschile, ecc.
Attraverso delle interessanti diapositive Luciana Percovich ci illustra gli insediamenti caratteristici delle società matriarcali di solito posti su terrazzamenti ma privi di mura difensive. Il posizionamento delle case mostra un ordine ed un organizzazione tale da rendere non solo inesatta, ma anche ridicola la definizione di civiltà “primitive” tipicamente patriarcale e positivista. Il centro dell’abitazione è il forno, dove si svolge l’alchimia della trasformazione dal crudo al cotto, del cibo ma anche della ceramica (attività tipica assieme alla tessitura) e metafora della gestazione e della rinascita.
Luciana Percovich chiude il suo intervento con una interessante, bellissima e incoraggiante considerazione. Noi siamo le prime generazioni a conoscere l’esistenza delle società matriarcali precedenti a quelle patriarcali che ci è stata imposta come struttura universale dell’organizzazione umana. Questo sapere non è solo mentale, ma sprigiona energie rinnovate, energie sopite che curano i nostri vuoti e le nostre idiosincrasie, la nostra mancanza di origini e radicamento. Oggi siamo a conoscenza di questo passato, ma esso non è un sapere indifferente, ma una “sofia” che ci obbliga a compiere una precisa scelta di campo nella progettazione del nostro futuro, che non deve più ripartire da zero.
Pittura ritrovata nel sito di Catal huyuk [mostrata da Luciana Percovich nel suo intervento]
In “Feritilità e ospitalità: come sostenere i doni delle Grandi Dee”, Giulia Valerio ci fornisce un approccio ancora diverso – intenso ed emotivamente coinvolgente – alla scoperta dei principi delle società matriarcali. La psicoterapeuta junghiana mette al centro del suo intervento lo status simbolico della Dea, il suo carattere peculiare legato al dare ma anche all’accogliere e l’idea del dono che rappresenta un elemento centrale nelle società matriarcali e che per noi suona così rivoluzionaria.
Jungh è stato uno dei pochi a intuire la “potenza delle madri” e per primo ha descritto il furto compiuto dal patriarcato del potere generativo delle donne. Così come è accaduto a livello storico, con la conquista delle società matriarcali da parte di quelle patriarcali, violente e conquistatrici, allo stesso modo la logica patriarcale ha sviluppato una mente predatrice che conosce il mondo appropriandosene e sezionando la realtà che viene suddivisa in concetti, etichette, nozioni consistenti e sussistenti. Ciò che sembra impossibile per la logica “separatista” maschile, secondo Jung, è appannaggio della coscienza femminile: il tenere insieme gli opposti, pacificare le contraddizioni.
Tuttavia questa idea junghina è stata ancora una volta riassorbita all’interno della logica patriarcale che seziona e gerarchizza. La coscienza femminile è divenuta inconscio, quella sorta di spaventoso magazzino dove mettiamo le cose che non riusciamo a far collimare con la separazione, con il sezionamento, con le categorie, con le etichette della modalità di pensiero patriarcale.
Attraverso la sua testimonianza di incontro con alcune società matrilineani e matrifocali (in particolare con la popolazione Dogon del Mali) la psicoterapeuta junghiana, ci conduce alla riscoperta di una coscienza completamente diversa dalla quella patriarcale attraverso la testimonianza e l’incontro con i bambini. La profonda differenza tra la prospettiva simbolica patriarcale in cui viviamo e quella che Giulia incontra presso i Dogon si esprime attraverso i disegni dei bambini e il modo in cui viene rappresentato lo spazio. I bambini Dogon non disegnano lo spazio come un rettangolo delimitato in alto dalla linea del cielo ed in basso da quella della terra, ma rappresentano lo spazio in forma corclare, come visto dall’alto. Il cielo non delimita perchè il cielo è ovunque: sopra e sotto, in alto e in basso. La forma del cerchio è lo spazio in cui si svolgono azioni e vivono i personaggi disegnati. Tutti sullo stesso piano, senza gerarchie.
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I Dogon, che possiedono un ordinamento patriarcale per quanto riguarda la legge (che serve anche a gestire i rapporti con i colonizzatori occidentali), sono un’antichissima popolazione dalla struttura matriarcale. Verso il 1200 d. C. si sono ritirati in un’impervia falesia, remotissima e irraggiungibile, per sfuggire alle popolazioni armate e conquistatrici, al fine di preservare il loro profondo e vasto sapere e per evitare le religioni monoteiste.
Il mondo matriarcale e i suoi valori sono per noi estremamente attuali: la possibilità di tenere insieme, di pacificare al posto di dividere, di separare e di gerarchizzare, ci appare come una soluzione non solo per le nostre coscienze ma anche per il mondo in cui viviamo. Poichè, come riconosce la discepola di Jung, Marie Louise von Franz: più persone riescono a tenere insieme le proprie contraddizioni, più ci si avvia verso la pace e si eviterà una terza guerra mondiale.
Ultimo intervento della mattinata è quello di Cécile Keller: “Matriarchal Medicine. Maternal principles in matriarchal healing” che esamina la concezione di medicina tipica delle società matriarcali ancora esistenti e i suoi principi che possono essere utili anche per noi, donne occidentali, per curare noi stesse, gli altri e il mondo.
Partendo dal presupposto che l’approccio alla medicina non può essere diversa dalla società che la produce, Cècile Keller ci introduce nell’argomento restituendoci la sua esperienza nel cerchio di guarigione sciamanico che ebbe modo di provare attraverso il contatto con una tribù di indiani americani chiamati Deer Tribe. Il cerchio di guarigione ha insegnato a Cécile l’idea della medicina basata su una prospettiva matriarcale, in cui i concetti fondamentali di ‘salute’, ‘malattia’ e ‘diagnosi’ hanno un significato completamente diverso nelle società patriarcali e in quelle matriarcali.
Secondo la definizione del World Forum si definisce ‘salute’ come uno «stato di benessere completo fisico e mentale, non solo la mancanza di malattia o infermità». In questa definizione manca un aspetto fondamentale, essenziale per la medicina matriarcale; nella prospettiva che potremmo chiamare “occidentale”, la medicina è uno stato individuale che non ha nulla a che fare con il contesto in cui si vive, con gli altri e con il mondo.
La popolazione degli Hiroki deriva il suo concetto di salute dalla loro visione cosmica: per loro salute è equilibrio ed armonia dell’interno e dell’esterno, mentre lo squilibrio è causa di malattia.
La diagnosi non si ferma a determinare i sintomi, ma ricerca la causa dello squilibrio che ha prodotto i sintomi. Il metodo di trattamento in questa prospettiva, è indirizzato non solo alla persona, ma alla sua coscienza, dunque, alla sua anima e al suo corpo agli individui che vi sono intorno, che sono coinvolti nel processo di guarigione.
Si tratta quindi di un’idea di guarigione in senso ampio: la riconnessione con il cosmo, con le energie dei poteri spirituali, con le dee e con i poteri ancestrali. Un processo di guarigione collettiva, come avveniva anche nel nostro passato non troppo lontano, oggi sostituito da un individuo – il medico – che a porte chiuse prende il posto degli spiriti ancestrali e delle dee.
La medicina matriarcale si basa sui seguenti principi: visione femminile, senso materno, mantenimento/recupero della salute e dell’armonia nel mondo, profonda spiritualità.
Il senso materno è l’elemento centrale del processo di guarigione, ma non è una caratteristica esclusiva delle madri biologiche, ciascuna persona indipendentemente dal genere sviluppa il senso materno che è la qualità di prendersi cura di se stessi e degli altri. “Diventare buone madri” dunque, in primo luogo per prendersi cura e guarire noi stesse e poi gli altri. Per fare questo è necessario riconnettersi alla Dea, demonizzata e esiliata dalla cultura patriarcale negli inferi. Écate per i Greci, Isis per gli Egizi sono divinità femminili della vita ma anche della morte, che presiedono alla guarigione e che simboleggiano il ciclo della rinascita, cuore della visione matriarcale.
Avvicinandosi alla Dea possiamo rendere sacro quello che è stato demonizzato e rendere unito quello che è stato separato. Ma questo processo di guarigione si può applicare anche alla società in cui viviamo, se compiamo cambiamenti dentro di noi anche la società e il mondo, a cui siamo interconnessi, cambierà con noi.
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Sabato pomeriggio – Workshop
Dopo un gustoso pranzo offerto dalle organizzatrici a tutte le partecipanti del convegno, si sono ripresi i lavori e ci siamo divise nei quattro gruppi di lavoro previsti:
1. Tessere legami: matriarcato, relazione e cooperazione
2. Terre di lei: narrativa e miti matriarcali
3. La Natura e la Dea: sacralità, archetipi, tradizioni
4. Patriarcato globalizzato o rilancio della matrilinearità?
Io ho partecipato al quarto gruppo di lavoro, che era il meno numeroso, con circa una quindicina di partecipanti, tra cui due uomini.
Dall’antropologa culturale che ha passato tre mesi presso la popolazione Moso in Cina, all’insegnante, dall’ex sindacalista alla donna che
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lavora in ospedale, dall’economista al signore che si è scoperto antipatriacale dopo la pensione (quando ha avuto il tempo di leggere e capire che sua moglie aveva ragione), dalla doula olistica alle filosofe, a chi si è occupata di studi postcoloniali, a chi partecipa ad un gruppo sulle mestruazioni, il gruppo si è avvertito subito come profondamente eterogeneo per provenienza, età, esperienze. Ma grazie al sapiente lavoro delle coordinatrici mi pare sia stato possibile fare quell’esercizio profondamente matriarcale di tenere insieme le diversità e le differenze. Questo probabilmente anche grazie all’argomento del nostro workshop, che si interrogava sulla possibilità, nel contesto della società occidentale, neoliberista e consumista, di escogitare “pratiche buone” ispirate ai principi del matriarcato per iniziare a partire dal piccolo, da noi quel cambiamento che desideriamo.
Dopo un primo momento dei discussione incentrata proprio sul partire da sé di ciascuna, ci siamo concentrate sul senso operativo del nostro workshop e ci siamo anche concentrate sulla ‘restituzione’ che avremmo fatto il giorno successivo nella sessione finale del convegno.
Per questo motivo intendo riportare i nuclei fondamentali di discussione emersa attraverso la restituzione che abbiamo proposto domenica mattina durante la sessione finale del convegno che si è tenuta nella suggestiva cornice della Sala Grande del Palazzo Comunale di Pistoia.
Domenica 5 ottobre – Comune di Pistoia
Procedendo con ordine riporto la ‘restituzione’ di tutti 4 i gruppi.
1. Tessere legami: matriarcato, relazione, cooperazione
[La restituzione del lavoro di questo gruppo viene fatta da tre portavoce, perchè a quanto ci viene comunicato, le voci emerse durante il workshop sono state così varie che si è sentita la necessità di pensare un intervento a più voci].
Il gruppo è stato attraversato da un conflitto: alcune hanno avvertito nel gruppo paura, disagio e imbarazzo, energia negativa, alcune sentivano che il gruppo non le avrebbe ascoltate e accolte. Disagio come donne e come figlie.
[C'è da dire che questo disagio è stato avvertito dalle donne “giovani”, presumibilmente tra i 30 e i 40 anni, che hanno fatto anche da portavoce al gruppo].
Il gruppo inoltre era molto numeroso perciò le emozioni e le personalità in gioco erano tante, dato che ogni partecipante porta con sè le proprie aspettative, esperienze, letture. I lavori del gruppo, dunque, si sono indirizzati nell’elaborazione di queste emozioni nell’ottica di un ripensamento emozionale.
Il gruppo, poi, si è misurato su tematiche inerenti al suo titolo: ovvero il tema delle relazioni e della possibilità di pensare relazioni più matriarcali anche nella società di oggi.
Partendo dal presupposto che ogni relazione passa attraverso il corpo, si è affrontato il tema del parto, nel racconto di un parto non medicalizzato, il tema dell’autodeterminazione in relazione alla scelta di essere madri alle soglie dei 40 anni [tema però che a quanto ho potuto capire, rappresentava un'esigenza personale di una delle portavoce], il tema delle comunità di donne anziane sole (Mason Babayaga).
É stato rilevato, infine, che secondo il sentire delle portavoce [non si è capito se fosse un pensiero condiviso all'interno del gruppo] il movimento femminista non ha saputo tramandare sapere, allo stesso modo in cui le madri non hanno comunicato abbastanza con le figlie su temi centrali quali il corpo e la sessualità. Le portavoce del workshop auspicavano il recupero di una collettività ampia che permetta momenti di scambio tra generazioni, non solo nelle famiglie ma anche nella società.
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2. Terre di lei: narrativa e miti matriarcali
Dalla restituzione comprendiamo quanto fosse chiaro e delineato fin dall’inizio l’obiettivo del gruppo: riflettere sulle questioni di genere nel canone della letteratura occidentale chiedendosi cosa hanno scritto le donne e quando hanno iniziato a scrivere e se ci sono “questioni femminili” nella letteratura.
Ciò che è emerso dalla discussione è una grande difficoltà nel delineare il ‘maschile’ e il ‘femminile’. Si è poi rilevato che le donne posseggono una maggiore capacità rispetto agli uomini di raccontarsi (su un piano strettamente orale) e di produrre narrazioni e discorsi su di sé e questo rappresenta un valore nella nostra società in cui il discorso su di sé è così sottostimato.
Se si analizzano invece le scritture e le costruzioni di testi maschili e femminili, sembra che le donne prediligano la costruzione di storie in cui la risoluzione finale non sembra essere così necessaria, il finale rimane aperto, e quindi mutevole, non incontrovertibile, fisso e statico.
3. La Natura e la Dea: sacralità, archetipi, tradizioni
[Partendo dal presupposto che esiste un tempo del confronto (ieri pomeriggio) e un tempo per domande e risposte, la restituzione del terzo gruppo è stata un susseguirsi di incalzanti e interessanti quesiti posti alle relatrici sulle tematiche su cui il gruppo ha lavorato il giorno precedente].
Come vivere la sacralità oggi, nel nostro tempo e soprattutto come riuscire a rivivere questo mistero dentro di noi? E in questo processo qual è il valore del sentire?
Come rapportarci con il misterioso, con l’ignoto?
Se fare spazio è caratteristica del pensiero includente matriarcale come ci rapportiamo con il tempo?
Qual è il futuro che le relatrici vedono?
E infine, per citare un film: dove andiamo? Anche se sarebbe meglio riformulare forse in come andiamo?
4. Patriarcato globalizzato o rilancio della matrilinearità?
Il 4 gruppo ha elaborato una restituzione schematica cercando di riportare all’assemblea le domande, le riflessioni e le proposte emerse nella discussione di sabato pomeriggio:
Domanda: Perchè abbiamo assistito nel corso della storia alla nascita di forme di patriarcato in tempi diversi e in luoghi diversi del mondo e perchè queste forme si sono spessissimo rivelate vincenti rispetto alle strutture matriarcali?
Riflessioni:
Abbiamo riflettuto sui meccanismi di assunzione di responsabilità delle donne rispetto al patriarcato, nella società e nella politica.
Abbiamo riflettuto sulle polarità maschile e femminile e sulla necessità di stabilire l’armonia tra esse in ogni singolo individuo al di là del genere.
Abbiamo ragionato insieme sul concetto di “cura”, da intendersi in primis come cura di sé, cura dell’altro ma anche cura dell’ambiente e della madre terra e abbiamo preso distanza dal concetto di cura previsto dal patriarcato: come attività di servizio appannaggio esclusivo delle donne.
Proposte/che fare
La condizione preliminare di ogni pratica o attività che si ispiri ai principi patriarcali è di recuperare il nostro vissuto sacro nel quotidiano, in modo da vivere la connessione tra noi stessi e il cosmo. É stata auspicato il recupero della spiritualità immanente.
Buone pratiche
il pianeta deve diventare un nostro oggetto di cura: individuare pratiche e azioni per contrastare la sua distruzione e questo si può fare solo con una riflessione sui consumi e sugli stili di vita che si traduce su piano personale con il consumo critico e consapevole.
Punto imprescindile per attuare di cambiamenti è la necessità di un’educazione non sessista (nei giochi, nei ruoli e nel linguaggio) e l’introduzione degli studi matriarcali nei programmi scolastici.
Necessità di fare rete tra gruppi, associazioni sul territorio che lavorano su questo cambiamento ma anche necessità di relazioni faccia a faccia.
Abbiamo rilevato che il modello di famiglia tradizionale è eccessivamente statico e auspichiamo la possibilità che attraverso la legislazione siano possiibili altri tipi di famiglia.
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Dopo le restituzioni le relatrici hanno avuto un po’ di tempo per rispondere alle domande e raccogliere le considerazioni dei gruppi, restituendoci a loro volta pensieri e riflessioni.
Heide Göettner-Abendroth rileva che i conflitti intergenerazionali sorti nel primo gruppo sono un sintomo tipico della cultura patriarcale in cui viviamo: la tendenza alla divisione e all’allontanamento di una generazione dall’altra. Va recuperata la dimensione di condivisione e unità.
Al secondo gruppo chiede quali caratteristiche maschili e femminili abbiano ricercato, se quelle previste dai ruoli rigidi e stereotipati del patriarcato o quelli che vorrebbero in una società più egualitaria e meno irregimentata; mentre alla domanda del terzo gruppo su come ritrovare il sacro ricorda l’esperienza del movimento internazionale sulla Dea e sulla spiritualità che ha elaborato delle pratiche per riprendere la connessione con il cosmo fuori di noi e con la Dea dentro di noi.
Al quarto gruppo e alla nostra domanda sui patriarcati risponde rimandandoci al futuro in cui completerà le sue ricerche sul tema.
Cècile Keller prosegue il discorso sulle pratiche fornendo degli esempi concreti su come procedere per ritrovare il sacro dentro ciascuna di noi oppure per lavorare serenamente in un gruppo dove si avverte disagio e separazione.
Giulia Valerio ritorna sul disagio del primo gruppo esaminandolo: quando ci troviamo di fronte all’altra, ci radichiamo ancora di più in noi stessi perché nell’incontro con l’altra vediamo noi stessi, perciò le emozioni che proviamo sono negative, la paura domina l’incontro con l’altra.
Risponde poi alla domanda del quarto gruppo sul perché il patriarcato sembra vincere sempre con una brillante provocazione. Ci chiede di risintonizzarci sull’onda (o il cerchio?) lunga della storia. Il patriarcato è risultato la forma prevalente solo negli ultimi 4000 anni , una piccolissima parentesi di vittoria se per i 40000 anni precedenti è stata impiegata una forma di organizzazione matriarcale.
Inoltre è davvero necessario vincere? Se il divino si incontra nella mancanza e nella sconfitta non è più interessante essere perdenti?
Valerio ci ricorda che la grande proposta matriarcale non prevede una società antitetica da opporre a quella patriarcale esistente, altrimenti non si farebbe altro che riproporre contrapposizione, contraddizione e conflitto. Il matriarcato, la civiltà della Dea sono civiltà d’unione.
Luciana Percovich chiude le riflessioni delle relatrici ricordando che durante il Novecento la Dea si è ripresentata a noi. Il XX secolo è il secolo della riemersione dei reperti, di statue che abbiamo accolto, permettendo l’emersione della Dea.
Il linguaggio dei miti e in particolare dei miti di creazione ci mostrano simbolicamente che la vita si sviluppa nel momento in cui la danza cosmica delle energie trova equilibrio. Ci sono due forze che la fisica ha chiamato centrifuga e centripeta, una forza che va verso il fuori, che esplora, che cerca e una forza che tiene insieme, che raccoglie. Noi abbiamo grossolanamente denominato queste forze maschile e femminile. Queste energie sono entrambe dentro di noi ed è importante che esse danzino liberamente (cosa che non hanno fatto negli ultimi 5000 anni). Non a caso allora la riscoperta della Dea ci ricorda che è giunto il momento del cambiamento, della riattivazione di queste energie sopite, di abbandonare la stasi mortifera patriarcale.
Una considerazione importante è quella che Percovich ci regala sul corpo: uno dei mali peggiori del patriarcato è la sopravvalutazione della mente e di conseguenza – impiegando il pensiero binaristico patriarcale – la svalutazione del corpo. Ma come ci insegna la costellazione concettuale matriarcale ogni cambiamento avviene anche attraverso il corpo.
Luciana ci saluta richiamandosi ad uno slogan degli anni ’80 che può essere un’indicazione operativa per intraprendere nuovi processi di cambiamento: “pensare globalmente e agire localmente”, non solo in termini di spazio ma anche in termini di tempo, ponendoci di fronte alla necessità di un’onesta assunzione di responsabilità: ogni gesto, ogni decisione di oggi ha peso per la costruzione del futuro di domani.
Una nota: l’utima sessione del convegno si è chiusa con un grande cerchio in cui tutte le partecipanti si sono prese per mano, hanno celebrato la presenza l’una dell’altra, e la sacralità del momento. Un gesto fortemente rituale ma anche corporeo, egualitario e accogliente. Mi ha fatto pensare quanto potesse essere anche profondamente rivoluzionario poiché il contesto è stato quello della Sala Grande del Comune di Pistoia, un luogo che è stato per secoli una roccaforte del potere, potere eminentemente patriarcale, riservato agli uomini ed esclusivamente maschile.
Un ringraziamento speciale alle relatrici e ai loro interventi, e a tutte le partecipanti (quelle che ho conosciuto e quelle che non c’è stato il tempo di conoscere) e alle Zie di Sofia che sono state impeccabili dal punto di vista organizzativo e accoglienti e calorose con noi partecipanti.
Ringrazio inoltre di cuore la mia compagna di convegno, Valentina: alla sua Panda a metano che ha reso il nostro viaggio economico ed ecologico e a lei che non poteva essere compagna più adatta per questo cammino alla scoperta della Dea fuori e dentro di noi.
Se volete scoprirne di più, il sito del convegno Matri-arkè ci sono molti materiali utilissimi e interessanti:
http://www.matri-arke.org/
con le bellissime foto del convegno, scattate da Guido Mencari.
http://www.hagia.de/home.html