Cari lettori, ecco un mio articolo sulla Cambogia recentemente pubblicato su Sette, il magazine del venerdì del Corriere della Sera. Racconta storia e significati del celebre sito archeologico di Angkor, giudicato nel 2015 dagli esperti di Lonely Planet «il luogo più bello del mondo». Ma l’articolo parla anche delle “nuove Angkor”, cioè i siti più lontani e ancora poco noti, nonché dei rischi a cui il turismo di massa, quando non è ben gestito, sottopone questi luoghi tanto belli quanto fragili. E fornisce infine dei consigli di lettura per saperne di più su Angkor e la Cambogia. Auguro a tutti voi un 2016 ricco di soddisfazioni e…di viaggi! MR
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Qual è il luogo più bello del nostro pianeta? Il sito archeologico dei templi di Angkor, in Cambogia. Questo, perlomeno, è il parere del celebre editore turistico Lonely Planet, che pochi mesi fa ha pubblicato The Ultimate Travelist, un libro con la classifica dei 500 posti più affascinanti del mondo. Tutte le classifiche sono discutibili e questa è discutibilissima: l’Italia appare solo al settimo posto con il Colosseo di Roma, mentre Piazza San Marco a Venezia è soltanto in ventiseiesima posizione, preceduta alla venticinquesima dalle piramidi dei faraoni egiziani. Si potrebbe dibattere all’infinito ma, a prescindere dalle classifiche, un fatto è indubbio: Angkor è di una bellezza abbagliante. «È uno di quei pochi, straordinari luoghi del mondo, dinanzi ai quali ci si sente orgogliosi di essere membri della razza umana», scriveva Tiziano Terzani in un reportage del 1993, quando ancora quasi nessuno visitava l’antica capitale dell’impero Khmer.
Il sito archeologico comprende centinaia di meravigliosi templi induisti e buddhisti, la maggior parte dei quali si trovano dispersi nella giungla oppure nella placida, incantevole campagna cambogiana. Edificati dagli imperatori Khmer fra il nono e il quindicesimo secolo, sono tutto ciò che ci resta di questa civiltà che si estese anche su larghe parti del Vietnam, del Laos e della Thailandia; gli edifici civili invece, che venivano costruiti in legno, sono andati perduti. Nel Medio Evo, quando le città europee contavano poche decine di migliaia di abitanti, Angkor ne contava fra il mezzo milione e il milione, in un’area di quattrocento kilometri quadrati; ma considerando anche i templi più lontani, alcuni studiosi parlano di tremila kilometri quadrati. Un immenso complesso urbano a bassa densità abitativa, ma ricchissimo: il segreto della sua fortuna stava nelle grandi opere di ingegneria idraulica che permettevano, fra l’altro, di ottenere due-tre raccolti di riso all’anno.
A noi restano i templi, gioielli d’arte in una cornice di mistero. Perché di misteri Angkor è ricca: la sua simbologia religiosa – induista in origine, buddhista più tardi – è stata decifrata solo in parte. Ad esempio, il celebre tempio del Bayon, è (come le piramidi egizie) il sepolcro di un imperatore; rappresenta una montagna cosmica, centro dell’universo, attorno a cui si snodano le mura della cittadella di Angkor Thom che simboleggiano i monti, circondati da un oceano primordiale rappresentato dal fossato della cittadella. Mentre i serpenti tenuti dai giganti alle porte di ingresso di Angkor Thom sono corde-arcobaleno che legano il mondo degli uomini a quello degli Dei. Però nessuno studioso è ancora riuscito a capire che cosa significhino esattamente i 126 volti di pietra, contraddistinti da un enigmatico sorriso, che stanno sopra il Bayon. Sono volti di divinità buddhiste? Oppure ritratti dell’ imperatore Khmer? O che altro? Senza contare che nemmeno sappiamo le vere ragioni per cui finì la civiltà angkoriana nell’anno 1431. La città fu abbandonata perché non poteva più difendersi dalla minaccia del vicino esercito Thai? O piuttosto – come molti oggi ritengono – per un lento disastro ecologico, dovuto alla deforestazione, all’eccessivo sfruttamento dell’ambiente e alla pressione insostenibile di centinaia di migliaia di abitanti?Sappiamo invece perché ci affascinano i suoi templi, soprattutto quelli che oggi non ci si presentano addomesticati in un lindo giardinetto, perché non sono stati (ancora) ripuliti dalla vegetazione trionfante. Templi come il Ta Prohm – molto noto perché si trova vicino alla città di Siem Reap – ma soprattutto quelli meno visitati perché più lontani da Siem Reap, nei siti angkoriani come Beng Mealea, Phnom Kulen, Koh Ker (foto sotto) e Prasat Preah Vihear (foto sopra), quest’ultimo sul confine con la Thailandia. I loro edifici si presentano con torri avvolte dalle liane, padiglioni strangolati dagli alberi, gigantesche radici che scendono dai tetti dei templi, incorniciano le loro porte e ne spaccano le pietre. Sono Arte e Natura indissolubilmente abbracciate in un lungo atto amoroso. Luoghi capaci di esercitare un forte richiamo sull’immaginario occidentale, una fascinazione che si è espressa anche nella spettacolarizzazione di Angkor, realizzatasi attraverso film e videogiochi (basta pensare alla serie Tomb Raider di Lara Croft o a certe scene dei vari Indiana Jones).Questa spettacolarizzazione di Angkor comincia in realtà nella Francia ottocentesca. Nel 1863 vengono pubblicati postumi i taccuini di Henri Mouhot, un naturalista che tre anni prima si era imbattuto, per caso, nella “meravigliosa città abbandonata”. I taccuini suscitano curiosità in tutta Europa e vengono subito tradotti in varie lingue (italiano compreso, nel 1871); pochi anni dopo, nel 1878, all’Expo universale di Parigi vengono presentati statue e calchi di opere d’arte dei templi, con enorme successo. È l’inizio della “Angkormania”, che porterà in Cambogia un gran numero di missioni archeologiche francesi ma anche una quantità di ladri di opere d’arte, per “lavoro” o per passione; fra questi ultimi si trovano personaggi insospettabili come lo scrittore André Malraux, che viene arrestato per contrabbando di antichità ma poi, pentitosi, si getterà contro lo sfruttamento coloniale in Indocina scrivendo nel 1930 il diario-romanzo La via reale. In un’atmosfera di colonialismo orientalista Angkor diventa per gli occidentali una terra – più onirica che altro – di avventure e di esotismi. Il suo simbolo è l’Angkor Wat, il più famoso e imponente dei templi angkoriani, che con le sue cinque spettacolari torri viene raffigurato un po’ ovunque, e del resto ancora oggi compare sulla bandiera stessa del Regno di Cambogia. Ma nonostante l’Angkormania il Paese dovrà attendere ancora la fine del ventesimo secolo per avere ciò che si può definire “un turismo normale”. Prima dovrà passare attraverso i bombardamenti americani, il genocidio commesso dai Khmer Rossi di Pol Pot, l’occupazione del Paese da parte del Vietnam.
Nei primi anni Novanta del secolo scorso inizia finalmente la rinascita della Cambogia. E di Angkor, che nel 1992 entra a far parte dei Patrimoni Unesco dell’Umanità. Il Paese è stremato ma Angkor, pur ferita da tante guerre, si apre al turismo. Nel primo anno, il 1993, quasi nessuno osa andarci: i visitatori sono 7.600. Pochi anni dopo, nel 1998, in un’intervista a Phnom Penh il Segretario al turismo cambogiano, Sambo Chey, mi dice: «Ho un sogno Vedere il giorno in cui Siem Reap pullulerà di alberghi e in Cambogia arriveranno 400mila turisti all’anno». Il sogno di Sambo Chey si è avverato moltiplicato per 10 volte: Siem Reap oggi è fin troppo piena di alberghi e nel 2014 in Cambogia i turisti non sono stati 400mila bensì quattro milioni e mezzo. E cresceranno. Che si fermino al mare nelle spiagge di Sihanoukville, oppure che passino rapidamente per poi andare in Vietnam e Thailandia, tutti prima o poi visitano Angkor. Ma è un turismo mordi-e-fuggi: si fermano ad Angkor un paio di giorni, si assiepano in qualche tempio vicino a Siem Reap e se ne vanno. Così, Angkor mantiene il proprio fascino nei templi più lontani, avviluppati dalla giungla. Ma è un fascino fragile, che può sopportare soltanto viaggiatori rispettosi. La capitale dell’impero Khmer dovrà essere tutelata di più.
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I LIBRI PER SAPERNE DI PIU’
– Marilia Albanese: «I tesori di Angkor», White Star.
Un’esperta di arte asiatica analizza la cultura dei templi di Angkor. Riccamente illustrato e con cartine dettagliate.
– Stefano Vecchia: «I Khmer. Storia e tesori di un’antica civiltà», White Star.
Vita quotidiana, costumi, religione e politica degli antichi Khmer.
– Bruno Dagens: «Angkor, la foresta di pietra», Universale Electa Gallimard.
La storia della scoperta europea di Angkor nell’ 800 e nel ‘900, fra orientalismo, colonialismo e fascinazione.
– Tiziano Terzani: «Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia», Longanesi.
Un grande giornalista racconta il genocidio operato dai Khmer Rossi di Pol Pot ma anche il fascino di Angkor, ferita dalla guerra.
– Pierre Loti: «Un pellegrino ad Angkor», Obarrao.
Il racconto dell’avventurosa spedizione di Loti in Cambogia nel 1901, lungo il corso del Mekong e poi nella giungla fino ad Angkor.
– Alberto Caccaro: «Cento specie di amori. Lettere dalla Cambogia», Lindau.
Un missionario del Pime racconta la sua vita con la gente di un villaggio nella campagna cambogiana, fra il 2001 e il 2011.
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