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Report:”Il prodotto sei tu”. E la sora Cesira non lo deve sapere?

Creato il 13 aprile 2011 da Agnese Vardanega

Il servizio di Report “Il prodotto sei tu” ha messo in evidenza le profonde contraddizioni non solo della Rete, ma anche del popolo della Rete.

In seguito alla nostra puntata del 10 aprile “Il prodotto sei tu” (dedicata ai social network e alla privacy, sicurezza e libertà in rete) ci saremmo aspettati una mobilitazione del “popolo della Rete” italiano in difesa della libertà d’espressione su Internet, visto che l’Autorità garante delle comunicazioni sta ancora conducendo audizioni al riguardo e il momento giusto per farsi sentire è adesso. Invece, nessuno ha mosso un dito per digitare una mail di protesta. Ci saremmo aspettati ancora di più una mobilitazione in difesa del soldato Bradley Manning, che sta rischiando la vita accusato di tradimento, in nome della libera circolazione delle informazioni – qualsiasi informazione – in Rete. Invece no, la mobilitazione non è “salvate il soldato Manning”, ma “salvate il soldato Zuckerberg”. Potenza della Rete. (Stefania Rimini)

Parliamoci chiaro: il business 2.0 si basa sulla possibilità di diffondere ed utilizzare i contenuti generati dagli utenti, e di utilizzare le informazioni che gli utenti rilasciano per produrre e condividere contenuti, e/o per accedere a tanti utili servizi.

Così, quando utilizziamo i servizi che Google ci mette a disposizione, pensiamo di farlo gratuitamente, quando invece li compriamo in cambio delle tracce di navigazione che lasciamo. Lo stesso accade quando utilizziamo qualunque strumento gratuito e social, da Facebook a Flickr, a Twitter. I nostri dati sono la moneta sonante del web 2.0.

Questo sistema ha consentito e consente a tante piccole imprese, come anche a tante associazioni no-profit, di avere inserzioni pubblicitarie mirate e fare marketing a costi molto contenuti. E questo è un bene, perché ha certamente ridotto i fattori che chiudono il mercato.

Google da parte sua, è diventato un gigante lavorando non con poche grandi aziende, ma con la miriade di piccole imprese che non potevano permettersi i servizi delle grandi agenzie di marketing e comunicazione (effetto “coda lunga”).

Per questa ragione, penso che da parte di Google non ci sia interesse a farsi condizionare dalle grandi imprese e nemmeno dai governi. Allo stato attuale delle cose, a Google conviene che la rete sia il più possibile libera, perché tante imprese piccole saranno sempre più remunerative di poche grandi aziende, che non di rado si mettono pure a fare cartello.

Ma non possiamo dimenticare che non è Google a fare le leggi. Se un tribunale condanna Google a nascondere un risultato di ricerca, Google deve nascondere il risultato di ricerca (via Davide Bennato). E non so se questo sia un bene o se sia un male. È un bene rispondere alla legge, ma è un male falsificare o filtrare i risultati di ricerca.  E con la geolocalizzazione e personalizzazione dei risultati, scuse per falsificarli già non mancherebbero. In ogni caso, dipende dalle leggi che ogni paese ha.

Il caso di Facebook, invece, è un po’ diverso. Quando utilizziamo i suoi servizi, infatti, cediamo tutti i diritti sui contenuti e sulle informazioni che rilasciamo, o meglio che rendiamo pubbliche nei limiti delle impostazioni di privacy del nostro account.

Si tratta di una clausola fondamentale del contratto di servizio, che lascia chiaramente intendere l’intento commerciale della piattaforma, e la natura del suo core business. Infatti, se non fosse per questa clausola, Facebook non potrebbe suggerirci, con tanto di foto, gli amici degli amici in quanto potenziali amici (usa le informazioni degli iscritti per farlo); e non potrebbe neanche suggerirci le pagine da “likare”, dicendoci che piacciono anche a tizio o a caio.

Inoltre, Facebook può cedere (vendere) le nostre informazioni, le nostre note, le nostre foto, i nostri aggiornamenti di status a chicchessia. Sono suoi. Li analizza, e pubblica periodicamente i risultati delle sue analisi del contenuto.

Qualcosa si può fare, naturalmente: in primo luogo, modificare le impostazioni di privacy degli accounts personali. Per le pagine, invece, non si può fare assolutamente nulla, se non evitare di caricare sul server di Facebook contenuti di valore, e collegare invece la pagina ad un blog o ad un servizio esterno.

Qui, non ci sono leggi che tengano: Facebook ci fa sottoscrivere un contratto, e l’unica possibilità sarebbe quella di individuare elementi di illegittimità in alcuni dei termini di quel contratto. Ma non mi pare che nessuno abbia mai tentato questa strada.

Sinceramente, che la percezione dell’importanza della privacy sia cambiata non mi pare una buona ragione. Se d’improvviso il nostro sistema democratico cambiasse, credo che la privacy potrebbe altrettanto improvvisamente tornare ad essere una questione interessante per tante persone. Se la gente iniziasse a pensare che prima di un colloquio di lavoro vengono controllati i profili social di ciascuno, credo che l’atteggiamento cambierebbe. Il fraintendimento di fondo sta nel considerare Facebook come fosse uno spazio privato, irrilevante quindi rispetto alla nostra vita pubblica. Ma Facebook non è il salotto di casa nostra.

Teniamo comunque a mente che non ci sono degli omini che si mettono a leggere notte e giorno i racconti delle nostre feste di compleanno: le informazioni vengono processate in automatico, gli omini chiedono informazioni, i computer danno loro i risultati. Forse per qualcuno questo può non fare nessuna differenza, ma è sempre meglio saperlo.

Queste cose le sanno tutti? Non penso proprio. La sanno tutti i guru della rete, quelli che sono insorti contro il programma, per ragioni che non mi sono del tutto chiare.

Certamente, non serve continuare a fare del terrorismo sui social network. In questo, il popolo della rete ha ragione. Qualcuno invece pensa che la Gabanelli abbia commesso l’errore di non intervistare nessuno dei guru più influenti del web. Può darsi quindi che il popolo della rete non si sia sentito rappresentato. Si poteva far meglio, sicuramente.

Ma non può non venire il sospetto che in gran parte si sia trattato di una levata di scudi da parte di chi ha interessi diretti in questo business. Perché se è vero che le aziende possono sfruttare questo nuovo modo di fare marketing, è anche vero che spesso lo fanno rivolgendosi a professionisti nuovi (non di rado gli stessi guru della blogosfera), che sanno sfruttare  a meraviglia i segreti del PageRank, per far crescere le aziende (nei risultati di ricerca). E i loro blog.

Non sono le disgrazie del soldato Manning, il video dei civili uccisi in Iraq, le vicende di Wikileaks a mettere in discussione questo nuovo business. Neanche le attività del garante delle telecomunicazioni, tutto sommato. Per il momento, forse, è solo meglio che la signora Cesira non sappia esattamente in che modo le inserzioni pubblicitarie arrivino fino a lei.

Immagine tratta da report.rai.it


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