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ResearchGate e Academia.edu non sono archivi ad accesso aperto

Creato il 28 gennaio 2016 da Btfp @btfp1

L’Office of Scholarly Communication dell’University of California ha sentito la necessità di pubblicare un articolo – A social networking site is not an open access repository – per spiegare ai docenti locali le differenze fra un sito di social networking e un archivio ad accesso aperto. Anche in Italia un numero non irrilevante di studiosi sembra assimilare media sociali proprietari specializzati come ResearchGate e Academia.edu agli archivi aperti istituzionali o disciplinari.  Questo errore tassonomico  può avere conseguenze gravi sia per la conservazione a lungo termine dei loro testi, sia per la possibilità di usarli come oggetti di ricerca.

Academia.edu e Research.Gate sono media sociali proprietari, gestiti da aziende private con fini di lucro. Offrono ai ricercatori la possibilità di caricare dei testi e di connettersi a colleghi con interessi affini: sono, in altre parole, una specie di Facebook per accademici – esposti, dunque, a critiche simili a quelle che si è attirato Facebook.

Gli archivi ad accesso aperto istituzionali o disciplinari sono invece normalmente gestiti o da biblioteche universitarie come servizio d’ateneo, o da consorzi di enti di ricerca. La loro proprietà, dunque, è tipicamente pubblica.

I bibliotecari californiani riassumono le differenze fra gli archivi ad accesso aperto e  le piattaforme sociali proprietarie in un efficace quadro sinottico, riadattato qui sotto per il lettore italiano:

Quadro sinottico

  1. Le piattaforme proprietarie non sono né aperte, né interoperabili: i loro utenti non hanno il permesso di esportare i propri dati e riusarli altrove, né, a maggior ragione, l’hanno le biblioteche. Chi vuole esportare in un altro archivio un suo articolo già caricato su una di queste piattaforme deve ridepositarlo a mano. Gli archivi aperti, di contro, offrono dati e metadati aperti e riusabili, per esempio tramite il protocollo OAI-PMH.
  2. Gli archivi istituzionali assicurano una conservazione a lungo termine perché appartengono a istituzioni – le università – antiche e durevoli e sono amministrati da bibliotecari specializzati. Le piattaforme proprietarie appartengono ad aziende private, che domani possono fallire o convertirsi in qualcos’altro – tanto è vero che nei loro termini di servizio c’è scritto che possono interromperlo in qualsiasi momento.
  3. Affidare i propri documenti a piattaforme proprietarie è come scrivere nell’acqua. Il loro fine è il lucro: se l’investimento iniziale non risultasse redditizio scomparirebbero così come sono apparse.
  4. Come Facebook, le piattaforme proprietarie tendono a impadronirsi dei dati e dei contatti personali dei ricercatori, per incoraggiarli, anche aggressivamente, ad attirare amici e colleghi, e tendono a tormentarli con molti messaggi e-mail, in qualche caso al limite dello spam. Chi frequenta i media sociali proprietari va in cerca di connessioni: ma ci sono ricercatori che si sono convinti che i vantaggi materiali di queste piattaforme non compensino i danni morali che creano e c’è anche chi sta tentando di offrire a questa esigenza una risposta che non produca forme di feudalesimo digitale.
  5. Clausole poco note: solo a titolo di esempio, chi è consapevole  che depositando i propri testi in Academia.edu la autorizza a produrre opere da essi derivate?

L’articolo originale, molto più ricco di dettagli, merita di essere letto nella sua interezza – così come le considerazioni di Paola Galimberti su Roars. Come scrive Kathleen Fitzpatrick in  Academia, Not Edu, dobbiamo renderci conto che questi siti – esattamente come Facebook – non hanno lo scopo primario di facilitare la comunicazione fra studiosi, bensì quello di monetizzarla a proprio vantaggio. Usarli con la speranza  che offrano una pubblicità in grado di superare i tradizionali oligopoli editoriali – che traggono anch’essi diversamente profitto dalle nostre comunicazioni – rischierebbe di farci cadere in un’altra, più pervasiva concentrazione. Abbiamo più che mai bisogno di un‘infrastruttura di ricerca che connetta noi stessi e i nostri dati senza consegnarci alla servitù di interessi privati vecchi e nuovi.

Nel 2013 Evgeny Morozov immaginava uno scenario nel quale un’altra, ancorché un po’ più aperta, piattaforma proprietaria – Google Scholar – venisse chiusa perché poco redditizia e chiedeva:

Perché non ci stiamo preparando a questa eventualità costruendo una robusta infrastruttura pubblica? Non suona ridicolo che l’Europa sia in grado di realizzare un progetto come il CERN ma sembri incapace di produrre un servizio on-line per registrare e seguire gli articoli sul CERN?

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