Milla Jovovich
Scritto e diretto da Paul W.S. Anderson (come il primo, 2002, e il quarto, Afterlife, mentre per Apocalypse ed Extinction era stato solo sceneggiatore, affidando la regia, rispettivamente, ad Alexander Witt e Russel Mulcahy), il film riprende le prodi gesta di Alice (Milla Jovovich, brava ma costretta in ruolo sin troppo monodimensionale) dove si erano interrotte nell’ultima puntata, l’attacco aereo della Umbrella Corporation alla nave Arcadia: la nostra eroina è ora prigioniera, ma ne verrà fuori grazie all’aiuto, tra gli altri, di Ada Wong (Li Bingbing, abito rosso con spacco e coscia birichina) e Albert Wesker (Shawn Roberts). Fra realtà alternativa (in cui è moglie e madre felice) e virtuale (le città di Tokyo, New York, Mosca, Suburbia), la novella Alice in Wonderland sbaraglierà armate di zombie, giganti tagliatori di teste, moderni Ciciarampa e tutto ciò che le scaglia contro la terribile Regina Rossa, sino a giungere, dopo capitomboli, sparatorie all’impazzata e botte da orbi, alla fatidica comprensione della realtà, in quel di Washington D.C. …Li Bingbing
In un’evidente fase di stanca della sceneggiatura, con il tratteggio a grana grossa del clima cospirativo sospeso tra tematiche politico- sociali vintage (la Guerra Fredda) e moderne (il potere delle multinazionali nel renderci cloni di noi stessi, adatti ad ogni uso), Anderson mantiene l’abituale nonchalance, spavalda ai limiti dell’arroganza, d’assecondare i ritmi più frenetici e rutilanti, per un intrattenimento soddisfacente a livello essenzialmente visivo: la fantasia al riguardo però latita parecchio, palesando anzi un’impronta derivativa lungi dall’essere propriamente affascinante e coinvolgente, riproponendo stilemi horror e sci- fi degli ultimi trent’anni ( scrivere “citando” sarebbe un ardito complimento), senza alcuna metabolizzazione caratterizzante.
Viene mantenuta, comunque, in conclusione, la validità della visualizzazione, senza visionarietà, di una società distopica, ammantata in un clima apocalittico, che trova la sua efficacia nel finale, al solito sospeso, dove l’inquietudine è data dall’attesa dell’agognata chiusura, affidata al prossimo capitolo, quello finale, a quanto è dato sapere ( e sperare).