Magazine Diario personale

Responsabilità

Creato il 09 gennaio 2013 da Povna @povna

E’ morto il professore Torre. Si è sparato un colpo di fucile, in bocca, la notte tra il 31 dicembre e il 1 gennaio.
La notizia ha raggiunto la ‘povna nel pomeriggio del nuovo anno, attraverso una telefonata del Carabiniere Scelto. E lei per prima cosa ha pensato a Samarcanda, e ai pugni duri di un tempo bastardo che trovano chiunque ovunque. Anche su un’isola di fronte all’infinito.
Poi, mentre preparavano cambusa e scorte, ne ha parlato in cucina con Ghiaia, Thelma e Amica, soprattutto. Perché sentiva il bisogno di condividere una quantità di osservazioni. Sono le stesse che ripropone qui, adesso. Dopo che la scuola reiniziata le ha dato la possibilità di scambiare, anche, faccia a faccia, parole e silenzi con gli alunni e coi colleghi.
Il professore Torre – absit iniuria verbis – non era portato per l’insegnamento. La ‘povna ne aveva parlato occasionalmente qua su Slumberland, ma nemmeno poi tanto, perché quello che faceva tutti i giorni (leggere il giornale in classe, dare a tutti almeno 7, lasciare che i ragazzi facessero tornei di carte se gli portavano caffè e cornetto) era sostanzialmente assai ordinario. Non lo faceva per cattiveria, ma per malessere. Aveva una totale, evidente, incontrollabile paura di parlare in pubblico; e un ancor più forte (e inconfessato) timore degli adolescenti che, specie se in gruppo, gli procuravano – con la crudeltà implicita nel loro nero e bianco – un forte senso di disagio. Se a questo si aggiunge una sordità costante, e costantemente rimossa (si era convinto a provare un apparecchio solo all’alba di questo inizio di anno), il quadro è completo, e poco consolante. E non stupisce dunque che il professore Torre vivesse la sua vita da insegnante cambiando classe, e (nei limiti delle possibilità offerte da una scuola piccola) sezione, tutti gli anni. Nessuna quinta, mai, per nessun motivo (tranne il caso dell’Onda), ché tanto altrimenti finiva sempre in una aspettativa nel secondo quadrimestre; nessuna classe ripresa mai per più di due volte; il numero massimo possibile di ore a disposizione. Era l’unico modo per evitare qualche danno. Perché il professore Torre, insegnante di Agricoltura Tecnologica arruolato alle patrie scuole da graduatoria permanente, per corso abilitante, non era, disgraziatamente, licenziabile. E dunque l’istituzione che lo aveva in carico si arrangiava per fare di necessità virtù, “quel che si può”, come il motto del 2013. Peccato che un motto del genere non possa essere applicato alla funzione pubblica, e possa valere soltanto come eventuale progetto di condotta personale.
I colleghi sapevano, tutti quanti. E parlavano del “problema” nei corridoi, nelle pause, alle macchinette. E altrettanto sapevano gli alunni. Tra i quali, i (temporaneamente) suoi si dividevano in tre gruppi. Coloro che ne approfittavano per un anno di allegro fancazzismo, punto e basta (fu il caso dell’Orda in terza). Coloro che cercavano di portarlo a spiegare, qualche volta, andandosi a guardare il programma in altre classi, e poi facendogli domande (e rifiutando così la logica del caffè e dei voti a pioggia, che peraltro erano poi positivi ugualmente) – fu il caso dell’Onda con il nocchiero Calvin, l’anno scorso, e poi (per imitazione di quei cugini da cui sentono di voler prendere esempio) dei Merry Men. E coloro, infine, che si adoperavano per ottenere la questione risolta, andando a protestare dalla Preside, appellandosi legittimamente al proprio diritto a una pubblica ed effettiva educazione (era stata la posizione, in terza e poi ancora quest’anno, criticata sostanzialmente un po’ da tutti, delle famiglie dei Maculati). Nessuna di queste opzioni era di impatto, come è ovvio. Perché la questione, alla radice, era la stessa: il professore Torre a scuola ci stava malissimo, ma niente e nessuno, a parte un sollevamento definitivo dall’incarico (cosa che nella scuola è virtualmente impossibile), avrebbe potuto per davvero risolvere il problema.
Eppure, la ‘povna pensa, una risposta ci doveva pur essere. Ed è quello che ha risposto ai suoi amici, che la consolavano sull’isola; che ha discusso con una pensierosa Testarda (concordando un po’ su tutto) e ha fatto presente, nei dibattiti, a parecchi suoi colleghi. Perché il professore Torre di primo lavoro ne faceva un altro. Era, infatti, un abile e capace proprietario di una tenuta agricola, nella quale produceva olio, vino, castagne e frutta, nei pressi di Salassi. E allora – ed è qui che entra in gioco la responsabilità del titolo – la ‘povna si interroga sulle colpe, profonde, di un’istituzione pubblica cui si accede troppo facilmente per caso e per lista. E, certo – lei lo sa bene che di fronte a un gesto così estremo, e così atroce, come un suicidio programmato nel dettaglio – non ci sono ragioni, o risposte, ma solo tante e infinite domande. Tuttavia dentro di lei una voce continua a ripetere che qualcosa si poteva fare, forse. E quel qualcosa non è la carità finto-pelosa di chi sa benissimo come stanno le cose, ma mantiene lo statu quo, e volta la testa dall’altra parte. Perché il professore Torre era una persona mite e debole, poco adatta alla socialità adolescente; che aveva (chissà, forse per consiglio di qualcuno) pensato di integrare attraverso la scuola i contributi pensionistici del suo lavoro di azienda. Ma non aveva, nei fatti, abbastanza pelo sullo stomaco per reggere il furto ai danni dello Stato che, spesso, in questi casi si porta avanti; ma nemmeno (è comprensibile) la forza di licenziarsi autonomamente (perché essendo una persona fragile sarebbe stata un’ammissione di fallimento). Ma che cosa sarebbe successo, invece, se a scuola si accettassero stabilmente – senza chiudersi a riccio, in un’unica categoria massimalista – valutazione e merito? Che cosa sarebbe successo se qualcuno avesse bocciato, al termine del suo anno di prova, il professore Torre? Che cosa se fosse stato licenziato dopo una (autentica, quelle che in Italia, per legge, non esistono, perché non possono entrare nello specifico dell’insegnamento) ispezione? Forse, il professore Torre avrebbe potuto dare, per sfogarsi, a qualcuno del “bastardo” e dello “stronzo”; e tornare per tempo alla quiete della sua campagna. O forse no, perché le ombre della sua testa sarebbero state altre, e in ogni caso troppo forti.
Ma una cosa, per la ‘povna, resta certa. Comportandosi come non può che, per legge, comportarsi, l’istituzione scolastica non dà prova di comprensione verso i suoi insegnanti. Perché il lassismo è generoso solo in apparenza. E, forse, un po’ più di rigore da parte di tutti avrebbe evitato a lui di peregrinare, anno dopo anno, in sempre nuove classi (come un mobile scomodo regalato dalla suocera: che non si può buttare, ma non si sa dove mettere); e a tutti loro che rimangono di restare, muti e impotenti, a ripercorrere all’indietro la pellicola di parole e comportamenti incrostati tra le pareti delle aule. Rileggendo le lettere che il professore Torre si è lasciato indietro, in cui si raccomanda: “Non è colpa di nessuno. A scuola sono stato poco lucido”. E cercando di rispondere, senza risposte, alle lacrime dei Merry Men (che domandano “perché?”, e non capiscono). O al silenzio sotto shock, intriso di sensi di colpa (ingiusti, certo: ma quante volte sono stati messi alla gogna, perché avevano tentato di esercitare il loro dovere di cittadini che pagano le tasse?) dei Maculati.


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