Ingrid Bergman
Amici lettori di Sunset Boulevard, abituali o di passaggio, in questo 2015 così ricco d’anniversari da celebrare, relativi al mondo della Settima Arte, fra i tanti nominativi (come Orson Welles o Mario Monicelli) ho deciso di rivolgere un omaggio attraverso le pagine del blog all’attrice svedese Ingrid Bergman, di cui ricorre appunto il centenario della nascita. Ancora prima di Audrey Hepburn, Marilyn Monroe, Monica Vitti, Anna Magnani, citando le interpreti che più hanno segnato il mio personale immaginario cinematografico, la Bergman è stata colei che mi ha conquistato per prima, una volta visto, ancora adolescente (Tempus fugit), quello che sarebbe divenuto il mio film culto per eccellenza, Casablanca.
Ingrid Bergman in “Casablanca”
Del tutto perso in quel volto emanante una radiosa bellezza, ora bagnato dalle lacrime ma che in altre scene era stato esaltato da un sorriso per certi versi disarmante, ammiravo rapito il finale della pellicola citata, gli splendidi movimenti della macchina da presa orchestrati dal regista Michael Curtiz, orientati in veloce successione sui volti dei protagonisti mentre un aereo a centro pista è pronto al decollo.
La mia immaginazione mi portava all’interno dello schermo, avvolto da quella nebbia così irreale ma idonea a conferire una particolare atmosfera.
Eccomi dunque inedito personaggio al centro di un’altrettanto inedita sequenza conclusiva: Ilsa partiva col sottoscritto (scompariva improvvisamente la mia innata paura di volare…), mentre Rick, Laszlo e il capitano Renault “inauguravano una bella amicizia”.
Grazie dell’attenzione, un caro saluto,
Antonio
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Casablanca, 1941: con la II Guerra Mondiale ormai in corso la città è un rifugio obbligato per quanti fuggono dall’Europa in attesa di un visto d’espatrio per arrivare in America: non tutti infatti riescono a raggiungere liberamente Lisbona, principale punto d’imbarco, per cui occorre arrivare a Parigi e da qui proseguire verso il porto di Marsiglia, così da imbarcarsi per l’ Algeria.Una volta giunti ad Orano, si è dentro il Marocco Francese, che rientra fra i territori della Francia non occupata.
Il Rick’s Café Americain di proprietà dell’americano Rick Blaine (Humphrey Bogart) è il ritrovo di tanta variegata umanità, profughi dalla diversa nazionalità, soldati tedeschi, guidati dal maggiore Strasser (Conrad Veidt) e quelli della guarnigione francese, che fa capo al capitano Renault (Claude Rains). Il laido trafficante Ugarte (Peter Lorre), poco prima di essere arrestato, consegna a Rick due lettere di transito sottratte a dei corrieri tedeschi, che ha ucciso. Avrebbe dovuto venderle a Victor Laszlo (Paul Henreid), leader della resistenza cecoslovacca, ricercato dalla Gestapo dopo la fuga da un campo di prigionia, giunto nel locale insieme all’affascinante Ilsa Lund (Ingrid Bergman), profuga norvegese.
L’imperturbabilità di Rick si sgretola come sabbia fra le dita alla vista della donna: i due hanno vissuto una breve ma intensa storia d’amore a Parigi, poco prima dell’occupazione tedesca, avrebbero dovuto fuggire insieme, ma Ilsa era mancata all’appuntamento.
Humphrey Bogart
Ora che il fuoco della passione, a stento trattenuto, si è riacceso per ambedue, è giunto il momento delle spiegazioni: moglie di Laszlo già al tempo del loro primo incontro, Ilsa credeva che il marito fosse morto in un campo di concentramento. La donna è combattuta fra diversi sentimenti, seguire il coniuge e sostenerlo nella sua lotta o, ricordando quei momenti di felicità a Parigi, cedere definitivamente all’amore che ancora avverte, forse ancora più intenso di prima, per Rick. Quest’ultimo, d’altra parte, sembra propenso a mettere da parte qualsivoglia maschera cinica od opportunistica, pur mantenendo una ferma risolutezza, tanto da decidere di partire con Ilsa utilizzando le lettere di transito.
Ma, orchestrato un particolare piano e tutta una serie di doppi giochi, coinvolgendo anche l’amico Renault e Laszlo, una volta giunti tutti e quattro all’aeroporto, Rick farà in modo che Ilsa parta insieme al marito, “rinunciando all’amore per amore”, con la ritrovata volontà di tornare a prendere una posizione nella vita, coinvolgendo anche Renault, “inaugurando una bella amicizia”. In cima alla lista dei miei film preferiti (credo ve ne siate accorti dall’indirizzo del blog e dall’avatar…), Casablanca porta con disinvoltura sul groppone dei suoi fotogrammi 73 primavere, passando indenne con lo stesso fascino degli esordi attraverso gli anni, consacrato allo status di cult per più di una generazione.
Dooley Wilson e Bogart
Non è certo un film d’autore nel senso proprio del termine, e si potrebbe discutere all’infinito sull’impianto un po’ kitsch di una ricostruzione in studio lontana dal realismo e volta soprattutto a visualizzare gli stereotipi più consoni ad una fascinazione esotica, o sulla retorica presente in molti dialoghi. Si sostanzia, essenzialmente, come un felice melange di più generi cinematografici (“Non è un film, ma tanti film”, Umberto Eco), oltre che un modo, neanche tanto indiretto, dello star system hollywoodiano di partecipare al Secondo Conflitto, schierandosi contro il regime nazista ed evidenziando l’ingresso in campo degli Stati Uniti. Ciò si evince in alcune sequenze, vedi la firma di un pagherò da parte di Rick, recante la data del 2 dicembre 1941 (5 giorni dopo avvenne l’attacco giapponese alla base americana di Pearl Halbor), o l’innalzarsi in un roboante e commovente crescendo de La Marseillaise nel Café Americain a coprire un inno patriottico tedesco, Die Wacht am Rhein.
La suddetta combinazione di più generi non fu una certo qualcosa di deliberatamente voluto, ma un concorso di cause legato alla travagliata fase di messa in scena. Tutto ebbe inizio con la proposizione da parte dello sceneggiatore Casey Robinson della pièce teatrale Everybody Comes to Rick’s (scritta da Murray Burnett e sua moglie Joan Allison, basata sui personali ricordi dei loro viaggi in Europa nel corso degli anni ’30) al produttore Hal Wallis (Warner Bros.).
Bogart, Claude Rains, Paul Henreid, Ingrid Bergman
Quest’ultimo non ne fu particolarmente entusiasta, pensò che se ne potesse ricavare un discreto B movie, con probabili attori protagonisti Ronald Reagan e Ann Sheridan, e affidò la sceneggiatura, dopo l’abbandono di Wally Kline ed Aenas MacKenzie, ai gemelli Epstein, Julius J. e Philip G., mentre il nome di Reagan veniva man mano surclassato da quello di Bogart (in concorrenza con George Raft), considerando che il film potesse costituire un buon trampolino di lancio e fu presa in considerazione Ingrid Bergman, allora sotto contratto con David O. Selznick, il produttore che l’aveva chiamata ad Hollywood dalla nativa Svezia. Le riprese ebbero inizio il 25 maggio 1942, con l’aggiunta di un nuovo sceneggiatore, Howard Coch, per concludere il lavoro degli Epstein, ora accorsi in aiuto di Frank Capra, intento a girare una serie di film propagandistici, Why We Fight. Quindi, tutto ebbe inizio senza che vi fosse alcunché di definitivo, il copione assumeva varie connotazioni a seconda di chi vi interveniva ad apportare aggiunte o modifiche (sotto la supervisione di Robinson), in una frenetica alternanza di toni ironici, romantici e patriottici.
Dominava in particolare l’indecisione su come concludere la narrazione, lasciando cast e troupe totalmente disorientati.
Humphrey Bogart e Ingrid Bergman
La famosa battuta finale fu praticamente aggiunta a riprese concluse, chiamando Bogie a declamarla, e venne incisa sulla colonna sonora. A dare un significato cinematografico a tale apparentemente insensato mixtum compositum contribuì non poco l’abile regia di Michael Curtiz, il quale impose un particolare ritmo narrativo, piuttosto agile e veloce, ma sempre attento a valorizzare con intensi primi piani le toccanti interpretazioni dei protagonisti principali, Humphrey Bogart e Ingrid Bergman.
Ambedue furono quanto mai credibili l’uno nel delineare il ritratto di un loser ambiguo e cinico, la cui abnegazione sentimentale lo rende vincente sul piano morale, estremamente individualista ma con i suoi bravi ideali da difendere ed esternare come virtù quando necessario, l’altra nel far sì che potesse stagliarsi sullo schermo l’indimenticabile immagine di una donna tanto dolce quanto determinata, combattuta nell’amare due uomini con lo stesso impeto ma in modo diverso. Da non dimenticare il sarcasmo sornione di Claude Rains, l’idealismo eroico di Henreid e il perfido ghigno mefistofelico espresso da Veidt. Tornando alla regia di Curtiz, è certo suggestivo l’impiego della bella fotografia in bianco e nero di Arthur Edeson, sfruttandone con maestria e disinvoltura espressionista i giochi di luci ed ombre che la caratterizzano, così come appare rimarchevole il coordinamento con la colonna sonora, opera di Max Steiner.
Una pellicola tuttora visivamente mirabile ed appassionante, fra le poche in cui i temi universali dell’amore, del sacrificio, degli ideali portati fino all’estremo soffio vitale, sono sublimati ad un livello tale da essere funzionali alla composizione, propria del cinema, di quel particolare ed emblematico ensemble costituito da elementi quali fascino, mistero e magia, “mentre il tempo passa”. Fondamentale per poter ricostruire la genesi di Casablanca si è rivelato il libro Caro Bogart- Una biografia (Jonathan Coe, Superfeltrinelli, 2004; Titolo originale: Humphrey Bogart Take It & Like It, 1991).