Per associazione, adesso mi ritrovo sulla tangenziale di Londra a inseguire un autobus tipo Magical Mystery Tour. Inseguo per modo di dire, in realtà cammino con passo tranquillo perché il mezzo procede piuttosto lentamente. Dopo un po’, il bus si arresta a una fermata nei pressi di uno svincolo che curva verso un viadotto sospeso su un paesaggio agreste. Salgo a bordo, e qui m’imbatto in un gruppo di amici che non so chi siano. Tutti tengono tra le mani un libro - il mio libro! - nel quale ho raccontato le vicende del sogno sino a quel preciso momento. Ne leggo ad alta voce un breve estratto. Penso che è scritto benissimo, prosa piana e scorrevole, quasi mi stupisco di me stesso. Lo richiudo e guardo il titolo in copertina. Reven Street. Eh già, mi rivolgo al pubblico, si pronuncia reiv’n, non rev’n o riv’n, perché la storia è ambientata appunto a Londra.
Apro gli occhi chiedendomi se esiste veramente a Londra una via che porta quel nome. Dovrei controllare, ma dubito. E poi, cosa significa Reven? Per quel che ne so, è un’espressione priva di senso. E allora?... La luce del giorno filtra incerta nella stanza, dev’essere ancora presto e io intanto sono già lì a rimuginare. Mumble, mumble. Reven - si scrive Reven, si pronuncia reiv’n… che cosa mi fa venire in mente quel nome? Eppure ricordo qualcosa, souvenir liceali… Massì! The Raven! Certo, la poesia di Poe. Il corvo…
Caso chiuso, Mr. Holmes? No davvero, che diamine, ce n’est qu’un debut. Che cosa c’entra Poe? E perché The Raven? Vediamo, una cosa alla volta. Poe, perché ho letto da poco una citazione che lo riguardava. E fin qui ci siamo. Ma, constato, se devo pensare a Poe mi vengono in mente Casa Usher, Il Pozzo e il Pendolo, Gordon Pym (ovvio), La sepoltura prematura… Il corvo è appena l’ultimo anello della catena associativa. Sembra quasi un indovinello. L’indovinello che il mio Inc ha proposto - probabilmente sogghignando - al C confidando nella sua pochezza. E va bene, se è un indovinello proviamo a risolverlo. Dunque. Che cosa dice il corvo in quella poesia? Una parola… aspetta, aspetta, ce l’ho qui… Nevermore. Giusto. Nevermore.
Comincio a mettere insieme i frammenti. Vado a memoria. Il protagonista pone al corvo una serie assillante di domande: l’ultima riguarda la donna amata che è scomparsa, forse morta. La rivedrò ancora? chiede tormentato. Il corvo dà ogni volta la stessa secca risposta: mai più. In quell’espressione c’è qualcosa di lugubre e soprannaturale che raggela il cuore. Il sogno però, come ho detto, si svolgeva in un’atmosfera serena, aveva colori tenui, clima primaverile. Very British, per l’appunto. E allora? A cosa devo riferire quel mai più?
Ritorno ad alcuni fatti personali che sono successi nei giorni scorsi. Situazioni che, come mio solito, avevo eccessivamente caricato di apprensione si sono risolte invece con facilità inaspettata ed esito brillante. Traggo una conclusione ovvia: drammatizzare la realtà, affrontare gli eventi come fossero sempre questione di vita o di morte, eleva lo stress a livelli eccessivi e costituisce un inutile spreco di energia. Il mio problema è che penso troppo: architetture mentali fuori misura ingombrano il campo della mente, sembrano ciclopiche sculture primitive accatastate alla rinfusa che mi costringono ad affrontare giri interminabili. Ecco allora il senso di quel mai più. Mai più prendere tutto esageratamente sul serio. Mai più inseguire un’eccellenza indeterminata, una perfezione illusoria, di regola frustrata. Sviluppare invece una concezione più lieve della vita, accettare i limiti, apprendere dagli errori, colmare per quanto possibile le lacune. La mia unica preoccupazione dovrebbe riassumersi così: qual è il minimo che devo fare per fare bene? Fare le cose sufficientemente bene sarebbe già tanto. Come diceva Winnicott? Stare vivi, svegli e in buona salute. Ogni volta che inizio qualcosa, attendermi solo di poterla continuare, di sopravvivere a essa e di terminarla. Occorre altro?
(Febbraio 2013)