Se pensavate di andare a vedere Revenant e di godervelo comodamente spaparanzati nella poltrona del cinema, avete decisamente sbagliato pellicola e probabilmente lo avete capito nei primi 10 minuti di visione.
L’ultima prova di Iñárritu, infatti, più che un film è un tour de force, una prova di resistenza, una lotta estenuante contro la natura e gli uomini che lascia gli spettatori infreddoliti, esausti, basiti e inchiodati alla poltrona. Una storia più verosimile che vera, abilmente modellata e plasmata alle esigenze di un copione scarno quanto efficace che, strizzando l’occhio alla leggenda, narra l’incredibile epopea di un uomo che annichilito dall’invidia e dalla malvagità della sua razza, più che dagli artigli animali che gli lacerano le carni, troverà la salvezza nel ventre della natura selvaggia che sembra volerlo annientare più volte e che invece lo salva sempre, tanto dalle frecce acuminate degli indiani quanto da se stesso e dalla inutilità della sua vendetta.
Con Revenant, Alejandro González Iñárritu vuole evidentemente tentare la doppietta Hollywoodiana dopo i fasti di Birdman, e lo fa in maniera assolutamente coraggiosa, dando vita a un’opera saccente e pretenziosa, del tutto dicotomica rispetto a quella che gli è valsa il premio Oscar alla regia e al Miglior Film: il contrasto tra le due pellicole è talmente stridente da apparire quasi artefatto; se in Birdman le atmosfere erano quelle claustrofobiche e polverose di un vecchio teatro di Broadway, le luci quelle colorate e abbaglianti di una rutilante e affollatissima Times Square e i dialoghi frenetici, eccessivi, portati quasi all’esasperazione nella rappresentazione fedele di un teatro che glorifica e interpreta se stesso, in Revenant la sopraffazione che si avverte è ugualmente totalizzante, ma arriva dall’immensità e dalla magnificenza degli spazi infiniti, dalla cruda e bianca luce naturale del pallido sole del Grande Nord che lascia abbacinati e schiacciati da un silenzio perfetto, a tratti inquietante, rotto solo dal sibilare delle frecce dei temibili Ree, dal crepitio di un fuoco da bivacco, dalla mano tesa di un alleato inaspettato, dai grugniti di una mamma orsa che difende. a ogni costo, i suoi cuccioli dall’invasore.
La presenza umana in Revenant, infatti, è volutamente superflua, a tratti fastidiosa: i dialoghi sono ridotti all’osso e condotti unicamente da un magistrale Tom Hardy, che interpreta il ruolo dell’uomo bianco per eccellenza, un elemento rumoroso, disturbante e volutamente odioso, creato appositamente per distogliere l’attenzione dello spettatore dalla Natura terribile e magnifica e, senza riuscirci, anche dal protagonista, un Leonardo DiCaprio micidiale, completamente ammutolito ma portatore sano di una gamma espressiva strabiliante, perfettamente in grado di comunicare con il solo volto e di risultare sempre assolutamente credibile e appassionato, un vero e proprio Gladiatore delle nevi che trova i suoi Campi Elisi, non in mezzo al grano ma nella visione onirica di un ricordo straziante che tracima in un tenero quanto inutile abbraccio, capace di riportare il “padre di un figlio assassinato” alla realtà e alla necessità della propria vendetta.
Con Revenant Iñárritu ribadisce, se ce ne fosse ancora bisogno, il narcisismo del suo cinema fatto di piani sequenza strabilianti, di evoluzioni mozzafiato, di virtuosismi bellissimi da vedere ma volte superflui e di una fotografia che più degli occhi riempie l’anima e lo fa con una violenza visiva che stanca per la sua efficacia, ma che non disturba mai, perché il dolore e la brutalità, che pure abbondano, non sono mai fini a se stessi, bensì funzionali a un’avventura superbamente raccontata e sulla quale nessuno, neppure i numerosissimi radical chic da tastiera, avrebbe avuto nulla da ridire se non fosse stata ispirata a una storia vera.
Voto 8.