Il Paese era
giovane e non è un modo di dire. Thomas Jefferson aveva spedito
Meriwether Lewis e William Clark a redigere mappe di un Ovest ancora
perlopiù sconosciuto e selvaggio (e proprio a partire dal corso
dell'alto Missouri - tra l'altro - teatro a sua volta anche delle
peripezie illustrate dal film di A.G.Iñarritu), catalogare specie
animali e vegetali, osservare usi e costumi delle popolazioni
locali, nemmeno un ventennio prima della rocambolesca odissea occorsa a
Hugh Glass - figura tanto storica quanto leggendaria, cacciatore di
pelli ed esploratore - tra la tarda estate del 1823 e metà primavera del
1824. Il regista messicano s'è dunque ispirato in parte (come lealmente riportato dai titoli di testa) al volume scritto da Michael Punke, The revenant. A novel of revenge (tradotto da noi per i tipi Einaudi col titolo Revenant. La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta),
per confezionare un'opera in complicato equilibrio tra meraviglia
visiva, prontuario di sopravvivenza, percorso di riscatto, dimostrazione
di saldezza interiore, ad ampliare lo spettro delle
suggestioni riconducibili al cosiddetto revenge movie e malgrado la dubbia aderenza al physique du role richiesto della star Di Caprio.
Ammissioni preliminari a parte, è già interessante notare come
l'esistenza di un leggero ma significativo slittamento semantico
allorquando spostiamo l'attenzione dal resoconto di Punke - denominato
da subito, con tipica schiettezza anglosassone, novel, ossia costruzione di finzione - a quello nostrano che rimarca l'offerta all'ipotetico lettore di una storia vera, vada a ripercuotersi pure sull'introduttiva indicazione di massima cinematografica, nonché, di conseguenza e per li rami, sul taglio impresso al carattere principale che si muove sullo schermo e quindi al respiro che tale scelta imprime alla storia nella
sua interezza. Nel senso: è proprio a partire da quest'ambiguità in
apparenza esile che la curiosità può mettersi all'opera soppesando, da
un lato, l'affermazione di Punke secondo cui "Revenant è
un'opera di finzione. Detto questo, per quanto concerne gli
accadimenti principali, ho cercato di mantenermi fedele ai
fatti storici"; dall'altro, l'idea di Iñarritu di sgrossare Glass a partire da
Punke, per poi rifinirlo (e farlo agire) in ragione di direttrici
psicologiche (e comportamentali) più o meno autonome. Ciò è
curioso perché tale scarto concorre, privilegiato un punto di vista o
l'altro, a ridefinire il cuore stesso dell'intera vicenda.
In
linea del tutto generale - e tralasciando qui le argomentazioni
teoriche circa la specificità dei singoli linguaggi - è indubbio che
l'abbraccio tra Letteratura e Cinema, in ogni caso antico
e costantemente rinnovato, è di quelli che ci si scambia con trattenuto
trasporto, se non, per aspetti incidentali, con malcelata diffidenza.
Allo stesso tempo - e per provare a restare in tema - come può tornare
utile fra trappers in aperta competizione nello skin trade scambiarsi
informazioni vitali per la sopravvivenza in lande ostili, così
Letteratura e Cinema si ritrovano sovente, seppur, volendo, a volte loro
malgrado, impegnati in una sorta d'involontario mutuo soccorso. Non si
contano, infatti, gli scritti che sembrano fatti apposta per
assumere con facilità le fattezze di sceneggiature: allo stesso modo -
previa opportuna rotazione di centottanta gradi - la processione che
anima il tragitto dallo schermo al pozzo letterario da cui
attingere spunti, continua ad attrarre sempre nuovi questuanti, in un
fitto andirivieni di richiami, di riflessi, che si svelano, al fine, al
modo della paziente centratura di un'anamorfosi. Tutto questo per dire
che, al di là delle secche di una troppo insistita presunzione di verosimiglianza (che
Letteratura e Cinema dirimono o compongono con strumenti e scopi
autonomi: nel caso, in Punke la prossimità, laddove possibile, alle
cronache documentate, riduce l'incidenza di eventuali infondatezze; in
Iñarritu, il suo maggiore o minore far capolino, resta almeno
funzionale o non osta al dettato revanscista della trama che s'intende sviluppare), ciò che a conti fatti sdoppia davvero il Glass personaggio letterario dal Glass (anti)eroe di celluloide è la resa delle ragioni profonde della sua anabasi (nel senso letterale di spedizione): pervicacemente attaccata all'intima matrice corporea, nel libro di Punke; virata anche su tonalità spiritual/metafisiche nel film di Iñarritu.
Se l'incontrovertibilità dell'assunto per cui lo scampolo della vita di Glass di cui ci occupiamo (vita che si protrasse dopo la missione all'Ovest neanche
per un decennio e si chiuse per mano di coloro che avevano contribuito
ad inaugurarla, un gruppo di guerrieri Arikara) spicca dalla sua inerzia
abituale per un forzoso ritorno allo stato di natura (e tale
premessa costituisce anche il calco estrinseco del film), è addirittura
pacifica, ciò implica - per semplice inferenza - la sostanziale
prevalenza nel tessuto stesso dei fatti che ne compongono la fisionomia, degli elementi base di quella che possiamo chiamare avventura materiale,
intendendo con questa espressione l'insieme delle reazioni e dei
comportamenti relativi ad una serie costante e reiterata di sollecitazioni
fisiche generate dal contatto/attrito con l'ambiente naturale (a configurare e testimoniare quella di Glass, per dire, basterebbero, sic et simpliciter, le centinaia di miglia percorse a piedi - buona parte d'inverno - nella wilderness americana,
a cavallo dell'alto corso del Missouri, a margine dei bastioni centrali
delle Rocky Mountains, quindi lungo i fiumi Powder e Platte, e facendo
comunque scientemente finta di tralasciare l'evento terribile e più
plateale dell'aggressione di un grizzly nella boscaglia presso le
acque del Grand, tappe di un angosciante calvario annesse). Affinché
l'avventura materiale si dispieghi pienamente, al punto, nelle
congiunzioni più felici, di porre le premesse di una narrazione epica,
è necessaria la concentrazione attorno a pochi (ma esigenti)
riferimenti in grado di caratterizzarla a prescindere dalle epoche e
dagli specifici ambiti antropologici e culturali: una feroce aderenza al
dato sensibile, in primis (il corpo, il cibo, l'autoconservazione); la frizione che tale dimensione genera spesso a contatto con l'umano,
nella sua doppia accezione antagonistica/ribelle o panica/immersiva:
non ultima, la modificazione psicologica/emotiva che la vicinanza carnale del vissuto come esperienza materiale arreca nell'individuo e rilancia di continuo verso l'avvenire. Del resto, avventura,
nel suo etimo primo di "cose che accadranno" e nel suo significato
corrente di "vicenda singolare e straordinaria", contempla e racchiude
al proprio interno, come stazione di un itinerario tanto
fuori-dal-comune quanto rigoroso, proprio quella relazione arcaica ma
ineludibile che, nel primato della materia - nella constatazione
dei suoi limiti, nell'opposizione alle sue deficienze, nell'accettazione
della sua caducità - individua il nucleo del rapporto dell'Uomo col
Mondo (e, in trasparenza, quello con la sua rappresentazione interiore);
richiama (e rinnova) la necessità di comprendere la misura e lo stato
dell'"estensione del dominio della lotta"; reclama lo sforzo di
reperimento di un senso legato a principi netti e inderogabili:
sollecita l'avvento di un orizzonte mentale che di quel Mondo è specchio
e trascendimento, proprio perché alla sua evidenza fisica esso
si affida partecipandovi ("Il sole calante portava con sé l'asprezza
della pianura. I venti ululanti si placavano, rimpiazzati da un'assoluta
immobilità che sembrava impossibile in un paesaggio così smisurato.
Anche i colori si trasformavano... Era un momento adatto alla
riflessione, in quello spazio così vasto che poteva solo essere divino. E
se Glass credeva in un dio, per lui abitava in quell'immensa distesa occidentale" - M.Punke, op. cit. -
Esattamente all'altezza di questo crinale, il libro di Punke e il film di Iñarritu prendono sentieri differenti,
causando altrettanto differenti ripercussioni sulla struttura dei
rispettivi lavori. Se nella trattazione di Punke, ad esempio, al momento
d'imbattersi negli ovvi spazi bianchi lasciati da Glass nella propria biografia, si operano inevitabili glissando, s'inventano o si drammatizzano (ammettendolo) taluni episodi o tipi umani, si cuciono le frange incompatibili con opportuni rammendi temporali,
lasciando nell'essenza inalterato lo scheletro dell'avventura
materiale; al contrario, Iñarritu inserisce la rimembranza simbolica di
una famiglia distrutta dalla violenza come episodico intercalare onirico
che, da un lato, dovrebbe conferire all'avventura un ulteriore passo -
del tipo mistico/sapienziale - dall'altro avrebbe lo scopo di confortare
e rinvigorire lo spirito irato dell'inesauribile trapper.
Siffatte visuali, reciprocamente alternative nei confronti del
protagonista (e della sua condizione), calate, come detto, in un quadro
di estrema concretezza, sortiscono esiti allo stesso tempo intriganti e
controversi. L'affabulazione di Punke, assai lineare, pur nella sua
modulata alternanza di situazioni [tra la brutale guerra privata di
Glass con foreste, neve, fiumi, animali e Indiani e il proposito di
vendetta che via via sfuma in un atteggiamento in cui finiscono per
prevalere più stanchezza e disillusione che bramosia di sangue; le
peripezie del Cap. Andrew Henry, impegnato col resto della spedizione in
un faticoso slalom per evitare gl'inconvenienti di un territorio
insidioso; gli occasionali intermezzi dedicati a Jim Bridger e John
Fitzgerald, rei di aver abbandonato un Glass malconcio al suo destino
(motori primi, quindi, dell'odio livoroso del revenant); le parentesi storiche che c'introducono ad un Glass giovane uomo, impegnato prima nella marineria commerciale per un decennio - al soldo della Rawsthorne and Sons -
e "costretto" poi "con la forza a dare il suo contributo all'avventura
criminale di Jean Lafitte" - M.Punke, op. cit. -, il pirata], non si
discosta mai da una rilettura di fondo impressionista della
materia - vieppiù impreziosita, qua e là, da attente quanto sobrie
digressioni di carattere naturalistico, nonché affatto restia,
all'occorrenza, ad includere dettagli crudi o aspetti discutibili delle
personalità dei singoli - che se può risultare a tratti anodina o
persino sbrigativa, sottolinea comunque con chiara coerenza i confini materiali di
un'avventura unica nel suo genere, restituendoli nella pienezza di un
senso circoscritto ma definito. D'altra parte, l'interpolazione, nel
lungometraggio di Iñarritu, di sporadiche proiezioni di matrice
allusivo/metaforica [peraltro di per sé in farraginosa continuità con un
incedere già abbondantemente ieratico/contemplativo - e di notevole
impatto, almeno per il primo terzo del film - di ascendenza malickiana,
laddove taluni dettagli, non esclusivamente riconducibili all'estro
cromatico di Lubezki, pensiamo, per dire, al movimento parallelo inverso
della mdp allo scorrere delle acque del fiume ad introdurre il
personaggio di Glass, in apertura, o alla prospettiva basso/alto
utilizzata per esaltare la magnificenza avvolgente/incombente degli
alberi, avvicinano, da un canto, il prologo di "Revenant" all'epifania di un mondo, quello di "The new world" (scontro con i locali compreso); dall'altro, inaugurano quel processo di diluizione dell'avventura
materiale che nello svolgimento della narrazione si farà via via più
vistoso, fin quasi a venare l'atto estremo di Glass di valenze vagamente
risarcitorie e di ricomposizione di un ipotetico
equilibrio-morale-delle-cose, del tutto assente, ad esempio, proprio
nella figura e nella concatenazione degli eventi sbozzati da Punke], nel
tentativo di contraddistinguere il destino di Glass anche come esempio
di avventura spirituale, oltre a produrre una sensazione di sovraccarico che, poi, a conti fatti, non incide sul percorso primo dell'uomo-in-viaggio (anche indipendentemente dal fatto che Glass pare non abbia mai formato una famiglia - né bianca né indiana - quindi tantomeno generato dei figli; che Punke stesso è probabile si sia limitato a romanzarne la
permanenza di circa un anno presso la tribù Loup Pawnee, come
ad attribuirgli un amore più platonico/letterario che felicemente
vissuto per la diciannovenne Elizabeth Van Aartzen, nipote del Capitano
olandese Jozias Van Aartzen che lo aveva iniziato al mestiere di
marinaio - peraltro cancellata, questa figura
femminile, dall'immaginario sentimentale del meno che fortunato
protagonista nel giro di una manciata di pagine ad opera di una febbre
"contratta lo scorso gennaio", dal confronto con la quale "pur avendo
lottato, non è riuscita a guarire" - M.Punke, op. cit. -), distoglie e
confonde dal motivo principale del suo resistere a qualunque pericolo e
privazione - la vendetta, per l'appunto - proiettandosi in una sorta di ordine superiore (sposato
anche da Punke ma a mo' di epigrafe, ossia con palesi intenzioni
genericamente ammonitrici, se non meramente edificanti) per cui "Non
fatevi giustizia da voi stessi, ma lasciate fare all'ira divina.

TFK