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"127 Hours" è il film della rinascita di Danny Boyle. A qualche anno di distanza dall'exploit di "The Millionaire", furba opera del Bollywood peggiore e del Capra più smielato, che coronò la sua carriera con 8 Oscar, Boyle ha da dire qualcosa di diverso, ma per farlo, parte dai suoi collaboratori di successo, richiamati a gran voce. E così la colonna sonora è affidata ancora a A. R. Rahman, che mostra la sua capacità di allontanarsi dalla cara India a favore di suoni sperimentali, in continuità parziale con il film precedente (in cui la soundtrack non era per nulla banale). Si sentono i vocalizzi eterei e magici di Dido, ogni tanto. Anche lo sceneggiatore non cambia. Simon Beaufoy è l'ennesimo British screenwriter di successo, e va detto che, nonostante le ingenuità, il lavoro fatto per "127 Hours" è perfetto a confronto della pretenziosa e melliflua pellicola precedente. E la fotografia, che, nel film, tra movimenti di macchina complessi e tecniche di mescolanza artistica (l'ibridismo è la caratteristica formale, a metà strada tra il videoclip e l'uso costante di effetti speciali), è un aspetto non da poco peso per la riuscita, è sempre affidata a Anthony Dod Mantle, che va molto oltre il buon lavoro innegabile compiuto in "The millionaire". Infine, al montaggio, il comeback è di Jon Harris, forse il più impegnato della troupe in altre produzioni esterne. Fatte le premesse tecniche, si può essere certi che questa sia la vera pellicola adulta che ci si potesse aspettare dal Boyle dei cult del passato . Il film è legato in modo indelebile alla figura del protagonista, che viene seguito passo passo, momento dopo momento. Un mostruoso James Franco, che appare nella sua naturalezza e non perde il suo carattere brillante (che dà al film una componente comica e leggera necessaria per bilanciare l'alta drammaticità della situazione) riveste i panni di Aron Ralston, uno scalatore, noto per la fenomenale e inquietante esperienza vissuta nel luogo più magico del mondo (e lo scenario con le bidonvilles della periferia indiana è l'opposto dell'assoluta dimensione naturale, solitaria e angusta di questo paradiso tortuoso), il Canyonlands National Park. Il film offre una visione ampia in poco più di 90 minuti, e ricostruisce l'accaduto nei suoi minimi particolari (e le componenti fisiologiche non vengono taciute). La trappola, la lotta, gli eventi, i ricordi, flashback riusciti, la speranza, i rimpianti, seguiti, nella seconda parte, da 10 minuti di puro horror, intenso e sanguinolento. E Franco, come detto, è sempre in grado di bilanciare l'elemento drammatico con quello comico e da luogo ad un'interpretazione da "urlo" (più che nel film su Ginsberg), atipica, molto basata sullo slapstick (una parte del film è senza dialoghi e le battute sono davvero pochissime) più che sull'enfatizzazione vebale. Il film diventa il corrispettivo viscerale di "Buried" ma vince il confronto per l'immagine di solitudine umana e per la splendida location, quasi fosse un "Into the Wild" diverso, colorato, ottimista, moderno.
in uscita in Italia 11 febbraio 2011
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