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Nella vita, il confronto è un elemento importante. E confrontarsi con gli elogi ricevuti in modo unanime o quasi da critica e pubblico verso quest'opera di Mike Leigh lo è ancora di più. Ho trovato "Another Year" molto diverso da quanto immaginavo. Non ho mai nutrito una simpatia accesa per Leigh, anche se ho apprezzato alcune sue opere. E' un grande regista di attori, uno che riesce a tirare fuori dalle sue figure artistiche l'anima, nel bene e, spesso, nel male. E così, l'inizio senza fine del film è affidato ad una vecchia conoscenza, Imelda Staunton, la Vera Drake di qualche anno fa (e non solo). Ed eccole le tipiche interpretazioni di Leigh, quelle che sottolineano ogni minima espressione personale, sentimentale, viscerale, umana. Il cinema di Leigh è fatto di reiterate introspezioni, di attori che lavorano su sè stessi come nessuno (e la Staunton riesce molto meglio di alcuni veri protagonisti del film, come Ruth Sheen, ancora scossa dal precedente episodio minore del regista, l'insopportabile "Tutto o niente" o un Jim Broadbent imbolsito) e Leigh è il Kazan della situazione senza la capacità di porre in essere veri film, ma solo impressioni sentimentali. Cosa manca ad "Another Year"? Beh, verrei meno al mio credo, se dicessi che lo considero buon cinema, anche perchè, a dirla tutta, non so quanto sia possibile parlare di cinema e non di teatro, magari alla Checov, allestito perfettamente e con precisione dettagliata, con rimandi psicologici da lavoro maniacale, in cui si esprime la connotazione poetica di un regista che pone i suoi personaggi di fronte ad un dramma più o meno consapevole e comprensibile, anche se talvolta mitigato e senza furia. Nel passaggio delle stagioni (altro tema molto Checoviano), accade tutto, perchè non accada nulla, le cose si evolvono e non rimane che una coralità aperta, con ingressi ed uscite, che è poi la manifestazione veritiera della realtà. Ma il realismo di Leigh ha qualcosa di pedante, di ottocentesco, di letterario. E' il realismo della perfezione, della messa in scena impeccabile, della casa con giardino perfetto, delle brave persone che aiutano i "disagiati". Non a caso, l'unico personaggio davvero vivo e non morto in un film che non trova altra sua motivazione proprio che in esso è quello dell'ambigua, nevrotica, Lesley Manville, che è il pezzo di umanità in un mare di perfezione. Ma non basta a fare un film, soprattutto volutamente corale. Non rimane che un'impressione, un ricordo vago, una lentezza fine a sè stessa. Ma la corrosività dei ritratti borghesi di Checov e il loro dramma furioso sono lontani. Rimane il racconto-bozzetto bonario, che si perde senza imprimersi e senza avere una vera valenza cinematografica, magari in bilico tra commedia e dramma. E questo per me non è cinema, e forse nemmeno teatro, soltanto divertissment borghese mascherato da realismo popolare.
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