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Commedia adulta dell'inettitudine. Il nuovo film di Miguel Arteta, dopo il cinephile adolescenziale "Youth in revolt", è una visione dall'alto e dal basso del comportamento umano, tra ansie di carriera, "strutture" di ipocrisia, competitor senza sosta, puritanesimo sullo sfondo. Il cinismo è totale, anche se non chiuso al cambiamento speranzoso. L'America di Arteta è una grossa "factory" arrivista, dove spesso la misura di una persona sta non nella sua essenza ma nella sua capacità di guadagno facile e non.
Arteta è un regista atipico e piuttosto interessante nella cinematografia di matrice hollywoodiana. La sua è un'attitudine indie, forse nemmeno troppo originale, tra budget basso e volontà di conformarsi a canoni classici e facili tipici della tradizione americana. E così che "Cedar Rapids", molto più del discontinuo ma riuscito "Youth in Revolt", diventa una commedia solida, guarnita con una cifra sottile ma non per questo intellettuale o complessa, anche grazie a scene cult che starebbero bene in un film dei Farrelly per intenderci, seppur edulcorate e private di una tonalità vagamente surreale. Ciò che fa la differenza e pone Arteta tra i talenti maggiori della nuova generazione statunitense è il piglio totale ed omogeneo dell'opera, nonchè il taglio contenutistico che, oltre ad essere perspicace, è anche un rimando acuto alla società americana, uno specchio capace di inquadrare con precisione e realismo, senza cadere nell'analisi spinta. Alla commedia "easy", Arteta aggiunge una carica di cinismo inconsueto, una sfuggevolezza individuale dei caratteri (soprattutto con il Michael Cera del precedente capitolo) e uno sguardo atipico sui personaggi, non più facili omuncoli con battute dissacranti telecomadate, ma personalità complesse, tra inettitudine e maturità acquisita, visti nella mutazione, nell'atto stesso del cambiamento. Ed Helms, noto per essere uno dei punti di forza di "The Hangover", interpreta una figura che molti eticherebbero come "nerd" di vecchia generazione, timido e timorato, sotto il gioco di tutti, anche da un punto di vista sessuale (e il rimando a Freud diventa ovvio, anche se non esplicitato, con la soggezione alla donna matura Sigourney Weaver). La traccia tematica seguita dal regista è duplice: da una parte elencare le contraddizioni di una società mascherata e incoerente, quasi a documentarle con un occhio attento, dall'altra iniziare, attraverso un'allegra combriccola (che assorbe personalità altrettanto naif ma più esperte affidate ad un gruppo di attori quasi crepuscolari, da John C. Reilly ad Anne Heche), il personaggio principe alla vita, portandolo a trasformarsi da anti-eroe oggetto ad eroe soggetto. Ne viene fuori un "Fantozzi" senza componente surreale, anzi definito secondo un'ottica psicologica da manuale, che si trasforma ed arriva ad affermare agli occhi di tutti la vittoria del mondo della correttezza e della bontà, dell'educazione e dell'amicizia disinteressata. Sarà banale, ma non è altro che l'incarnazione umana del Peter Parker della Marvel. Certo la cosa più divertente è "il traviamento" ma il film merita nella sua interezza.
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