"Ceremony" di Max Winkler, giovane cineasta californiano, è un delicato déjà-vu, ennesima pellicola indie sul "wedding-day" mischiato al "coming of age". E la ripetizione del plot è il suo limite maggiore, il suo deterrente. Visto singolarmente, "Ceremony" è un esordio imperfetto ma non privo di qualche momento davvero felice. Inserito nella lunga sequela di film affini, risulta essere una versione fuori tempo massimo e piuttosto sempliciotta, ma sincera e in certi momenti rivitalizzata dalla giovinezza inesperta del suo principale artefice, qui director ma anche unico sceneggiatore. E una visione di incoraggiamento è d'obbligo, anche perchè Winkler ha un piglio attento e mirato ed evita disarmonie eccessive.
Un plot che funziona, dopo qualche anno, diventa necessariamente un archetipo filmico e, come ogni topos che si rispetti, richiede una serialità più o meno costante. Ma il "wedding-movie" nelle sue innumerevoli declinazioni ("romance", "bestfriend", "maid of honor", "comedy", "non-sense", "Family Drama", "greco", "italiano", "turco", "danese", "bollywoodiano", "gay", "reunion") ha oltrepassato ogni limite possibile. Non è solo il poco legittimo cinema blockbuster ad aver letteralmente spolpato il soggetto, ma anche tanto, troppo cinema indie di varia provenienza, soprattutto statunitense, ad essersi orientato verso una banalizzazione sovrannumeraria dell'assunto inziale. Winkler parte con un gap evidente, la scelta di un "wedding-movie" nella sua accezione più classica, con "cerimonia" annessa (da qui il titolo). Laddove nel passato il tutto sarebbe diventato una commedia frizzante e geniale come lo "Scandalo a Filadelfia" di Cukor con un trio d'assi d'eccezione ( Cary Grant, Katherine Hepburn, James Stewart), ora non può che fare ricorso al modello ibrido, più incline al malessere esistenziale che alla sofisticatezza. A dire il vero, Winkler coglie con esatezza (riproponendo l'assunto di partenza con poche differenze rispetto al capolavoro del 1940) il mutamento e, ispirandosi all'ultima trattazione in materia (che comprende anche episodi riusciti come "Rachel sta per sposarsi" del compianto Lumet), mette in scena un dramma coerente e deciso, che mescola insieme differenza d'età, scelte emotive e razionali, disagio personale, maturazione, adolescenza latente e giù di lì. Un'angolazione tutt'altro che facile. Winkler, infatti, non fa suo come il Baumbach de "Il matrimonio di mia sorella", il patrimonio psicanalitico di Freud, ma tenta e riesce a mantenere una sorta di leggerezza, dando all'opera un valore formativo più che analitico. Certo le debolezze spesso vengono a galla e sono soprattutto imputabili ad una scarsa capacità drammaturgica, visto che molte scene provocatorie cadono nel dimenticatoio, nonostante la forza intrinseca, mentre altre risultano scoordinate e prevedibili. Lo stesso lavoro imperfetto riguarda i personaggi, portati sullo schermo con quella mediocritas approssimativa tipica di un cinema che non trova l'essenza ma la riempie di elementi eccessivi secondari. La recitazione ( Michael Angarano, Uma Thurman, in primis) è pulita e precisa, non memorabile ma azzeccata. Molto buona la soundtrack, e anche la costruzione visiva è rimarchevole. A Winkler consigliamo, dato le promesse discrete, di puntare su una maggiore asciuttezza della storia.