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Tanovic torna alla guerra dei Balcani e la sua vena artistica rinasce. Nulla di trascendentale, nè di eccessivamente innovativo, ma uno sguardo autoriale che, nel suo essere deja-vu, aveva emanato una leggerezza strana e fresca con il pluripremiato "No man's land".
Dopo le due parentesi non troppo riuscite di "Triage", polpettone da reduci senza mordente e sapore e "L'enfer", quasi un atto dovuto di raccordo/omaggio a Kieslowski, senza dimenticare l'episodio bosniaco della rielaborazione "poetica" dell'attentato alle Torri gemelle nel discontinuo e irritante"11 settembre 2001", Tanovic ritorna in patria, terra che lo ha visto crescere e diventare un simbolo dell'antibelligeranza con il noto "No man's land", un corrosivo e atipico film di stasi che in una girandola di colpi di genio riusciva a rappresentare la condizione della guerra come innaturale e fuori da un disegno ontologico umano. A quasi dieci anni di distanza, "Cirkus Columbia" è leggermente fuori tempo massimo e forse un tentativo troppo evidente di ritornare a galla con un'opera non lontana dalle atmosfere e dallo stile ibrido tra commedia e dramma del precedente successo. Tanovic, a dire il vero, non ha mai cercato di scrollarsi di dosso la dimensione balcanica, ma ha bypassato la tematica, perdendo un'identità precisa. E certo vederlo riportare in vita una pre-guerra lontana nel tempo e quasi affievolita nella memoria collettiva non è qualcosa di estremamente coinvolgente, soprattutto ad un primo contatto diretto con l'opera. In realtà, attraverso una calibrata narrazione umana, non esente da alcuni incidenti di percorso, "Cirkus Columbia" fa intendere di non essere un lungometraggio poco sincero, quanto più una rielaborazione di una storia pregressa al vero conflitto, che vuole entrare sottovoce nelle cause della guerra, senza prendere una posizione univoca, ma con un occhio disincantato e meno parossistico. Ritorna così l'ombra di un comunismo estinto e di un pre-capitalismo borghese rampante, ritorna il motivo del dissidio tra diverse etnie, risolto in poche battute eloquenti ma didascaliche, ritorna la personificazione umana, la storia di singoli individui trascinati, essi stessi, da una macchina di cui sono in parte responsabili, la macchina degli eventi, dei cambiamenti, dei "corsi e ricorsi". Al di là di qualche forzatura, tipica del film di esordio del regista (dove aveva un valore molto più stringente), a colpire è soprattutto una sequenza finale che riesce, in modo antitetico e speculare a Mihaileanu, ad esprimere una liricità strana, in cui la spazialità (la città divisa in due tra bombardamenti e non ancora perduta joie de vivre) è un ossimoro visivo di rara efficacia.
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