Magazine Cinema
8.0 su 10
E' il vincitore della categoria Miglior Documentario agli ultimi Academy Awards, e come tutti gli Oscar che si rispettino è un prodotto certosino e curato nel minimo dettaglio (anche per il carattere visivo). Ma la cosa realmente nuova di "Inside job" è la freschezza narrativa, cadenzata dalla voce di un Matt Damon in forma, che riesce, attraverso un montaggio complesso e semplice allo stesso tempo, quasi un coro di voci indirizzate nella prospettiva assunta dal regista, ad essere esaustiva e comprensibile, non perdendo di vista i tecnicismi richiesti dalla materia. Una dissertazione economica può essere ostica, maledettamente ostica, per chi non conosce, come chi vi scrive, i fondamenti della questione. Il merito di Charles Ferguson sta nell'aver saputo trasmettere, attraverso elementi chiave disseminati lungo tutta la durata del progetto, la complessità dei rapporti di forza che intercorrono nella formazione dell'economia di un singolo stato. Con una semplice scansione in capitoli, quattro, introdotti da una didascalia elementare, Ferguson ci fa comprendere dapprima il concetto di "deregulation", iscrivendola in un preciso contesto temporale e partendo dal caso concreto dell'Islanda per poi arrivare a Wall Street, poi ci mostra il profilo di accordo con la criminalità di numerose banche occidentali, in relazione a traffici monetari provenienti dal riarmamento nucleare iraniano e dalla dittatura di Pinochet. Ma è l'evolversi logico degli argomenti affrontati a garantire una leggibilità maggiore. E così abbiamo un capitolo dedicato ai "derivati", nati con il proposito di stabilizzare il mercato attraverso una previsione matematica e, invece, causa di maggiore instabilità per via di una mancanza di "regolazione" avallata attraverso una vera alleanza con il potere del Congresso. Da qui parte la cosidetta "analisi" sulle motivazioni della "bolla" verificatasi nel 2008, che ha portato alla crisi economica, con perdita di investimenti e un aumento della disoccupazione. In realtà, ciò che preme mostrare a Ferguson non è l'avvenimento storico-sociale in sè, nei paesi interessati (e in questo modo il film non segue la strada del facile pietismo), ma piuttosto ciò che si nasconde dietro la crisi, ovvero un potere malato, rampante, che regge l'intera impalcatura dello stato americano e occidentale, arrivando ai suoi più alti livelli. Il regista non è un dilettante e ricostruisce le varie fasi storiche dell'economia statunitense partendo dalla crisi del '29 e focalizzandosi soprattutto sullo yuppismo finanziario da Reagan in poi. Ma la cosa assolutamente nuova è la sincerità del lavoro di informazione, che permette di evitare ogni scelta di campo e di descrivere l'operato di tutti i politicanti del paese, senza distinzione tra repubblicani e democratici. Le singole presidenze, i ruoli chiave, l'assetto totale, sono analizzati e vivisezionati, partendo dai loro più piccoli componenti fino a salire nella scala, attraverso anche una precisa documentazione dei "benefit" ottenuti come liquidazione in cambio di adeguamento e falsificazione delle informazioni di settore. Un vero meccanismo subdolo che ha travolto nomi di grido, senza riuscire a scalfire la loro forza. Ferguson non manca di mandare un avvertimento di indagine ad Obama, che, partendo da un programma mirato alla svalutazione del potere di Wall Street, responsabile diretto della crisi "pilotata" di qualche anno fa, ha confermato nei posti chiave buona parte dei dirigenti compromessi. Anche il sistema di monitoraggio dell'economia di un paese attraverso l'adozione di un rating da parte di agenzie indipendenti diventa oggetto di critica e inglobato nei facili passaggi di denaro, sottolineando il gravoso conflitto di interessi che domina sulla scena. Il documentario riesce (ed è difficile portare avanti una dissertazione complessa e sfaccettata nel definire il rapporto tra prestiti, speculazione edilizia, CDO e legami tra banche, agenzie, investitori e consumatori) ad evidenziare tutti gli aspetti del problema, diventando un vademecum fondamentale, anche grazie all'analisi interna e alle numerose interviste di personaggi-chiave, oltre alle documentazioni di indagine del Congresso. Inoltre rifugge dalla facile indignazione e chiama, con la Statua della Libertà a riempire la sequenza finale e la necessità di educazione e di comprensione del fenomeno, gli Americani alla resa dei conti, proponendo una prospettiva finanziaria non pessimista, ma comunque del tutto fuori da una portata democratica.
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