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Sorpresa. Il documentario di/su/con Justin Bieber non è il peggior film della storia cinematografia, come paventato da molti. Non è nemmeno un'opera da marchiare con il bollo dell'infamia. E' semplicemente un'operazione inutile, tra il fastidioso e l'accettabile, una macchina da guerra per soldi facili facili. Nell'era del blockbuster fine a sè stesso, "Never Say Never" è un anti-blockbuster, stilisticamente riuscito, di un percorso da "american pop-dream".
Difficile inquadrare un'opera il cui contenuto appare, dal principio, anonimo e non degno di interesse. Facile sarebbe stato evitare di trattare l'argomento, magari anche di guardare la pellicola. E invece No. Perchè un'operazione di tale portata, capace di scalare la box-office chart mondiale per diventare il documentario di maggior successo di tutti i tempi, complice il sovraprezzo del 3D, non può passare inosservata. Inizio col dire che "Never Say Never" è un film riuscito per quel che riguarda il suo "fine" artistico dichiarato, capace di essere insieme facilmente leggibile (con tanto di "speranze" da star di derivazione bimbo-talent) e, per certi versi, articolato. A differenza dei concerti dal vivo riproposti sul grande schermo con relativa facilità, (soprattutto delle star Disney in America, da noi il reiterato "passaggio al cinema" di Ligabue), "Never Say Never" è un documentario biografico a tutto tondo, che parte dalle fondamenta della carriera del giovane cantante Justin Bieber, adottando una precisa strada di analisi/lettura, quella di "normalizzazione" del personaggio e di espressione compiuta del mondo personale e lavorativo che lo circonda. La visione è, di certo, parziaria e alcuni momenti buonisti non fanno parte del nostro DNA cinematografico, adattandosi perfettamente alla prospettiva da Extreme MakeOver americano, ma l'operazione "simpatia" è riuscita in parte non tanto per un ridimensionamento, comunque evidente, dell'ego della piccola star, che non sprigiona un'immediata simpatia, quanto per la possibilità di mostrare la costanza e la dedizione all'impegno musicale che parte dalla prima infanzia e arriva fino al successo. Il regista, Jon Chu, è una scelta perfetta per "giustificare" il personaggio Bieber. Riesce, infatti, ad evitare di sviluppare l'elemento interpretativo (limitandosi a seguire le indicazioni dello staff che "protegge" il giovane singer), e a sovraccaricare, da bravo coreografo, l'aspetto tecnico, con una composizione visiva e scenografica notevole che si integra nel tessuto narrativo in modo semplice ma convincente, in piena sintonia con l'immagine "tecnologica" a cui la storia del ragazzo rimanda direttamente. Sottolineati i pregi della pellicola, non esorto alla visione perchè si tratta pur sempre di un panegirico rivolto al nulla musicale, votato all'introito monetario in modo anche subdolo (non vedo la necessità del 3D), a volte insopportabile per ripetizione di situazioni paradossali (e le urla delle biebers, oltre alle interviste "fuori dallo stadio", sono quanto di più insopportabile per gli apparati auricolari di qualunque adulto consapevole possa esistere) a cui aggiungere il buonismo "famigliare" senza verve. Banale, ma meno di altri artisti musicalei più blasonati e capaci che si prestano al grande schermo senza alcun supporto narrativo che superi la semplice ripresa di un concerto.
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