Magazine Cinema
8,5 su 10
Altro giro, altra festa. "Incendies", candidato all'Oscar come Miglior film straniero e battuto dal più appetibile "In un mondo migliore" della danese Bier, è il vero "art-house movie" della stagione. Diretto con grande rigore ed evitando inutili manichesimi da un canadese doc come Denis Villeneuve, si può definire il "Segreto dei suoi occhi" del 2010, un intenso e articolato ritratto personale e storico in cui l'elemento della ricostruzione, intesa come lavoro di comprensione di un passato lontano, diventa il leit motiv della narrazione. Ricostruzione significa, come in molti altri casi cinematografici, schematizzazione. E infatti il lungometraggio è attraversato continuamente da didascalie in rosso che rappresentano un tassello fondamentale nella comprensione totale dell'intreccio, brevi titoli introduttivi dei personaggi che entrano in scena. La compattezza della sceneggiatura che ne deriva mette in luce l'abilità e la forza del setting in quanto tale. La commistione tra storia personale, analizzata a ritroso attraverso un giustapporsi contrappuntistico di accadimenti passati e tappe scandite di ricerca attuale, e storia collettiva, con evidente richiamo ai trascorsi conflitti religiosi (e non) del Libano, è perfetta e riesce a far echeggiare punti di vista diversi (è un racconto corale), che emergono con la limpidezza narrativa di un classico del cinema moderno, successivo a "Quarto Potere", per intenderci. E' proprio l'inserimento di sottogeneri tipici del cinema hollywoodiano, accanto ad un'ambientazione di desolata bellezza naturale a dare, anche con accurate sequenze emotivamente forti, la marcia in più al film. A cui aggiungere una molteplicità di motivi che per noi possono suonare, in parte esotici, e che rimandano ad una dimensione storica e geografica che non abbiamo vissuto direttamente. Il carico della memoria, della "non-conoscenza", delle sofferenze che leggiamo nel nostro passato viene alla luce nella storia triste e antieroica della protagonista, presenza assente costante di un'epopea dolorosa ma anche carica di speranza, in cui anche la recitazione diventa spigolosa, mai melensa ma meno accondiscendente del solito, grazie anche a dei personaggi scritti con cura. E alla fine resta impresso un motivetto facile che si esprime attraverso il canto. La chiamavano "la donna che canta".