Magazine Cinema
5.5 su 10
Le pillole di saggezza dell'ultimo Terzani, riflessioni esistenziali scritte a quattro mani con il figlio Folco, non riescono ad integrarsi pienamente con il tessuto cinematografico, in un'opera che ricorda il Kammerspiel "naturalistico" meno ispirato.
La distanza tra un'opera filosofica, per quanto aneddotica, e la cinematografia è difficile da colmare in sè. Esiste una serie di film con espressione profonda di un pensiero "organico", magari affine alla filosofia di qualche esponente impresso nella memoria collettiva, soprattutto novecentesca, ma si tratta di casi rari, in cui il punto di vista è un'estrapolazione parziale che entra far parte della "poetica" dell'autore/cineasta. Kubrick, Malick e i Coen (questi ultimi non con tutte le opere), per esempio mantengono viva una filosofia coerente e contenutisca che sottointende le loro narrazioni sempre diverse. Terzani non è facile da affrontare, primo perchè esprime concezioni "filosofiche" senza essere un filosofo vero e proprio, secondo perchè la sua esperienza individuale è molto vicina all'ottica comune, tanto da influenzarne il comportamento, ma "personale" e quindi non "sistematica" nè innovativa. Nel film di Jo Baier non c'è una narrazione "altra" che si riferisca al pensiero del giornalista-narratore, sviluppando un'azione indipendente, c'è la stessa esperienza individuale di un uomo che esprime, alla fine della sua vita, la sua considerazione sulla morte in agguato. Al di là di un autoreferenzialismo da mettere in conto, "La fine è il mio Inizio" è una riflessione lunghissima, senza tracce di vera narrazione, in cui la verbosità supera l'emozione e la ripetizione l'intensità. La definizione di "Kammerspiel" calza a pennello. Nel film non accade nulla, se non un dialogo/confronto quotidiano, in cui si dibatte sul "senso" recondito di qualcosa di sfuggente come l'esistenza. La retorica è in agguato, anche se è da apprezzare la dimensione chiusa tipica del genere che impedisce, almeno, un eccesso di ricostruzione biografica fatta di flasbacks che avrebbero compromesso il carattere pacato e meditativo dell'opera. Per il resto, sia i dettagli naturalistici, sia la dimensione rurale fiorentina, accennata con garbo, costituiscono solo la scenografia inerme di un "film borghese" che può carpire la curiosità di una tipologia di pubblico limitata e settorializzata, ma al contempo non può che sembrare uno scialbo confronto retorico per chi non è avvezzo alle contempazioni eccessive e fini a sè stesse. Il formalismo è anche visivo, anche se molte trovate sono da fiction di una rete nazionale piuttosto che da un'opera autoriale. Forse la "colpa" del mancato coinvolgimento/forza del prodotto sta nell'attitudine del regista, che mette in scena l'opera originaria come un semplice "teatrino borghese", in cui i personaggi sono figurine incolori, senza una vera sostanza "drammatica". Viene meno il messaggio quando viene meno la credibilità di chi lo racconta e se Ganz è almeno un attore di razza adeguato alle singole sfumature, Germano, molto spesso, sbaglia l'attacco/risposta e il confronto risulta sgrammaticato, poco vivo. Il resto del cast ( Erika Pluhar, Andrea Osvárt) è incolore. Il film è senza mordente, telefonato, verboso, poco emozionante. Tanto vale leggere il libro da cui è tratto. La trasposizione cinematografica, per dirla tutta, non è necessaria.
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