Da "non-fan" della serie, vista di sfuggita e senza un minimo di interesse critico, il parziale reboot di "Pirati dei caraibi" non ha nulla di più, nulla di meno dei suoi predecessori più o meno illustri, in termini di appeal. E' un giocattolone vecchio stile, tra trovate visive riuscite (ma anche un inutile dispiego del 3D e un confenzionamento della computer grafica a volte raffazzonato), con una semplicità di dialoghi da rendere i vecchi Indian Jones dei film ermetici, in cui domina la figura di un Jack Sparrow traballante come al solito, ma meno definito e l'azione diventa la vera protagonista, mentre il director, il Bob Marshall di "Chicago", tende a dare il suo contributo con affascinanti ma poco funzionali visioni "quasi danzate" e non coglie appieno la potenzialità di una macchina più rigorosa. Per il resto, l'inclusione di altri personaggi è quasi superflua e i nomi altisonanti non fanno che aumentare il senso di inadeguatezza dei cambiamenti. Scegliere Penelope Cruz e poi affidarle un ruolo centrale, ma anche privo di un'introduzione logica adeguata, è un po' un contrappasso. E lo stesso si può dire del "Barbanera" di Ian McShane, che non è affatto male nell'insieme, ma non viene sfruttato a dovere, anzi è travolto, suo malgrado, da un elemento grottesco inspiegabile. Insomma, un difetto sta proprio nel distacco netto dalla vecchia produzione, il trittico di Verbinski che, pur non avendo sempre storie degne (il canovaccio qui si complica), era piuttosto unitario. Non è che poi la Knightley o Bloom fossero, per dirla tutta, grandi interpreti dei personaggi della vecchia produzione, ma era lecito attendersi una maggiore varietà psicologica e non il contrario. D'altronde, come dicevo, l'appeal sul pubblico non manca, e il film riesce, sottraendo qualche picco horror, ad essere comprensibile anche dai più piccoli. E' come se il produttore, Jerry Bruckheimer, stesse cercando, fin dall'inzio delle riprese, nuovi fan in età scolare per continuare il suo percorso, accettando di perdere buona parte dei fan della prima serie (e gli incalliti sono costantemente venuti meno e diventati più critici a partire dal secondo capitolo della vecchia saga). Va detto che l'elemento migliore del film (oltre alle musiche di Hans Zimmer, come al solito favolose) si rinviene in un'attenzione ai personaggi minori (con il "Barbossa" di Geoffrey Rush un po' appannato), grazie alla sottotrama riguardante il rapporto tra l'uomo religioso e la sirena, che è davvero una piccola perla di bellezza visiva e combinazione con il mito (la sequenza delle sirene che attaccano la scialuppa è veramente ben costruita, d'altraparte e fa intendere che è il big-moment/climax della storia), grazie all'alchimia tra Sam Claflin e Astrid Bergès-Frisbey (che assomiglia alla più nota Gemma Arterton).
Da "non-fan" della serie, vista di sfuggita e senza un minimo di interesse critico, il parziale reboot di "Pirati dei caraibi" non ha nulla di più, nulla di meno dei suoi predecessori più o meno illustri, in termini di appeal. E' un giocattolone vecchio stile, tra trovate visive riuscite (ma anche un inutile dispiego del 3D e un confenzionamento della computer grafica a volte raffazzonato), con una semplicità di dialoghi da rendere i vecchi Indian Jones dei film ermetici, in cui domina la figura di un Jack Sparrow traballante come al solito, ma meno definito e l'azione diventa la vera protagonista, mentre il director, il Bob Marshall di "Chicago", tende a dare il suo contributo con affascinanti ma poco funzionali visioni "quasi danzate" e non coglie appieno la potenzialità di una macchina più rigorosa. Per il resto, l'inclusione di altri personaggi è quasi superflua e i nomi altisonanti non fanno che aumentare il senso di inadeguatezza dei cambiamenti. Scegliere Penelope Cruz e poi affidarle un ruolo centrale, ma anche privo di un'introduzione logica adeguata, è un po' un contrappasso. E lo stesso si può dire del "Barbanera" di Ian McShane, che non è affatto male nell'insieme, ma non viene sfruttato a dovere, anzi è travolto, suo malgrado, da un elemento grottesco inspiegabile. Insomma, un difetto sta proprio nel distacco netto dalla vecchia produzione, il trittico di Verbinski che, pur non avendo sempre storie degne (il canovaccio qui si complica), era piuttosto unitario. Non è che poi la Knightley o Bloom fossero, per dirla tutta, grandi interpreti dei personaggi della vecchia produzione, ma era lecito attendersi una maggiore varietà psicologica e non il contrario. D'altronde, come dicevo, l'appeal sul pubblico non manca, e il film riesce, sottraendo qualche picco horror, ad essere comprensibile anche dai più piccoli. E' come se il produttore, Jerry Bruckheimer, stesse cercando, fin dall'inzio delle riprese, nuovi fan in età scolare per continuare il suo percorso, accettando di perdere buona parte dei fan della prima serie (e gli incalliti sono costantemente venuti meno e diventati più critici a partire dal secondo capitolo della vecchia saga). Va detto che l'elemento migliore del film (oltre alle musiche di Hans Zimmer, come al solito favolose) si rinviene in un'attenzione ai personaggi minori (con il "Barbossa" di Geoffrey Rush un po' appannato), grazie alla sottotrama riguardante il rapporto tra l'uomo religioso e la sirena, che è davvero una piccola perla di bellezza visiva e combinazione con il mito (la sequenza delle sirene che attaccano la scialuppa è veramente ben costruita, d'altraparte e fa intendere che è il big-moment/climax della storia), grazie all'alchimia tra Sam Claflin e Astrid Bergès-Frisbey (che assomiglia alla più nota Gemma Arterton).
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