Magazine Cinema
In "The Artist" troviamo due spinte cinematografiche antitetiche; la prima è quella, coraggiosa e ammirevole, di proporre un'opera formalmente azzardata, intessuta di didascalie e di accompagnamento sonoro e priva di parole (ciò che era il cinema muto, con repertori musicali suonati dal vivo durante la pellicola in modo estermporaneo) e con un ritorno al "black and white" classico (ma Guy Maddin aveva già carpito la possibilità di revival in modo meno pacificante e da mainstream), la seconda è quella, meno nobilitante e più controversa, di cercare, in modo scaltro e poco artistico, di intercettare le attenzioni di un pubblico di un certo livello e di una critica indulgente alla ricerca dell'originalità e del piccolo "fenomeno" dell'anno da glorificare. Quest'ultima spinta è evidente dalla impostazione tradizionalissima dello script, che non ha nè il coraggio nè la capacità analitica di distaccarsi dai clichè. Si dirà che anche il cinema muto basava la sua forza sulla semplicità della narrazione. Ma è altrettanto vero che tale cinema sviluppava un pathos e una tensione non votati immediatamente alla comprensione razionale, ma capaci di colpire i sensi dello spettatore. "The Artist", invece, orchestra in modo sapiente ed eccessivamente programmatico le emozioni e non le trasmette a chi guarda ma le presenta, quasi fosse un'opera di antiquariato e di storia manualistica del cinema, come fossero chiuse in sè stesse, mediate da una volontà organizzatrice che, nel celebrare il muto, diventa "altro", una ricostruzione nostalgica e ripetitiva, che sorge in linea con il sistema Hollywoodiano moderno, e non in antitesi, ideologica, con esso. "The Artist", sul finale, non osa mostrare le contraddizioni di "Viale del tramonto", celebre masterpiece di Billy Wilder sulla stella decaduta Gloria Swanson, e si mostra accomodante, pronto al compromesso tra le due forme, con la nascita del musical di Astaire/Rogers e perde ogni drammaticità, quasi svuotando l'importanza della citazione e del rimando storico. Facile, facile, scorre via, tra bellezza visiva davvero poco classica, soundtrack nota e rielaborata e due grandi intrerpreti, davvero notevoli nel riproporre, con duttilità, le performance memorabili del muto, affidate alla gestualità e ad un'esagerazione delle emozioni, Jean Dujardin e Bérénice Bejo. Per il regista, il francese Michel Hazanavicius, si tratta di un'opportunità presa al volo e non necessariamente di un'opera sentita e affine alle proprie corde stilistiche. Chapéu per l'idea.
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