Magazine Cinema
8.0 su 10
Per chi non ne avesse piena cognizione, la storia del giocatore di football Pat Tillman è uno dei tanti casi controversi che hanno caratterizzato l'epoca/amministrazione Bush Junior. La morte del ragazzo, determinata da "fuoco-amico", impegnato nella guerra in Afghanistan dopo un arruolamento volontario post-11 settembre, è stata oggetto, in qualunque maniera, di mascheramento, di manipolazione investigativa e di omissione reiterata, fino a diventare un caso interessante sotto un profilo politico ma anche di comunicazione. La morte di Tillman è apparsa infatti un evento a tutti gli effetti, dapprima elevato a simbolo di eroismo, divenendo strumento di propaganda ideologica, non molto lontana da quella smaccatamente totalitaria, poi un vero "caso" giudiziario, ricco di incongruenze, che si presta quasi del tutto, ormai, ad una lettura ambigua del sistema. Il documentario, diretto da Amir Bar-Lev, è un'esposizione chiara, poco politicizzata, molto lucida per ciò che concerne la complessità degli avvenimenti, visti dalla prospettiva umana (con la chiara volontà di non tralasciare anche aspetti privati, anche perchè la famiglia Tillman è al completo servizio della storia e inglobata nella prospettiva del regista) e nell'ottica di ricostruzione oggettiva della drammatica morte del giovane. Va fatto presente che Tillman non era un semplice soldato (nonostante avesse più volte manifestato, anche nei documenti relativi alle possibili esequie di "stato", l'intenzione di non essere trattato diversamente dagli altri), nè un giocatore di football di poco conto, ma un campione sportivo, inserito, nonostante limiti fisici, nella National Football League e diventato un simbolo del militarismo che caratterizzò il doppio mandato Bush, soprattutto nella fase immediatamente successiva all'attacco alle Torri, e che vide un paese allinearsi, per la stragrande maggioranza, a favore del conflitto in Afghanistan. In tutto questo, gioca un aspetto importante il ruolo propagandistico dei mass-media, che diventano "novellatori" di storie costruite ad hoc, per alimentare il consenso e definire una scissione manichea buoni/cattivi in grado di influenzare ogni strato della popolazione (stesso meccanismo legato alle armi di distruzione di massa). Ad un certo punto si fa riferimento anche al caso "costruito" della giovane Jennifer Lynch, imprigionata e torturata, che appare, per molti versi, una montatura mediatica. Il regista non arriva ad una conclusione univoca (che manca anche a livello ufficiale ancora oggi), e tende ad esprimere un'opinione, rafforzata dalla voce narrante di Josh Brolin, piuttosto definita ma non veramente politicizzata. Quindi è in grado di riprodurre l'elemento umano, senza per forza assumere una posizione antagonista al sistema, attraverso la problematizzazione, e cercando di inquadrare le opinioni dei famigliari, dei compagni, degli stessi generali coinvolti, a volte loro malgrado, nello scandalo. Il risultato è un tassello compiuto, un reportage chiaro, strutturato su una pluralità di livelli, che implica, tra l'altro, fenomeni come il "propagandismo di stato" e la veridicità dell'assetto "politico-militare", oltre ai limiti di un sistema che si definisce democratico. E fa indignare non puntando sulla lacrima facile, ma sull'ingiustizia della "verità celata", la stessa ingiustizia che provano i famigliari dei morti nelle "Stragi politiche" anni '70-'80 nel nostro paese, e che vedono un continuo reiterarsi del "segreto di stato". Il documentario su Tillman ha una forza rigorosa nell'assumere una prospettiva scomoda e pone la "moralità" dell'agire come modello chiave di un paese "democratico". E l'attualità non può essere che un termine di paragone chiaro.
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