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Ad un'età adulta, il passato comincia a riecheggiare quasi fosse presente. E Martin Scorsese, il cineasta manicheo, classe 1942, sembra aver, per un tratto di strada della propria esistenza, virato dalla propria ottica adulta, per ricongiungersi, mentalmente, con l'infanzia, la sua, naturalmente, ma soprattutto quella del cinema. L'anno appena trascorso è coinciso con una autocelebrazione meta-linguistica dell'arte cinematografica, leggere alla voce "The Artist" che, con risultati discontinui ma apprezzabili, ha segnato il ritorno malinconico all'epoca del muto, seppur senza un rigore filologico adeguato e all'interno di un'operazione ambigua. Al maestro Scorsese possono essere rimproverate, in genere, alcune cose, ma di certo mettere in dubbio la sua passione per la settima arte è eresia pura. Pochi sono stati i registi capaci di amare il cinema nella sua totalità prima di esserne artefici, altrettanto limitato è il numero di registi con una vocazione e un interesse bibliografico alla materia tanto profondi e duraturi. Scorsese incarna l'idea del Cinema, seppur nella sua declinazione quasi esclusivamente classica. Scorsese è l'ultimo regista dell'età dell'oro, un'età che ha a malapena vissuto, ma che è entrata nel suo DNA artistico fino a diventarne una costante poetica prima che stilistica, di reinvenzione e di attraversamento dei generi. E quando compare un'opera mista di prosa e schizzi come "La straordinaria invenzione di Hugo Cabret" scritta dal visionario Brian Selznick, Scorsese viene chiamato in causa a prescindere dal genere della pellicola. Sebbene la fantascienza per ragazzi sia ormai quasi una prerogativa esclusiva di Tim Burton, la cui poetica si adatta perfettamente a questo tipo di storie, nel caso del testo di Selznick, il riferimento ad un genio della cinematografia come Georges Méliès, l'illusionista, l'artigiano della meraviglia, il mito, implica una diversa consapevolezza storica e solo Scorsese sarebbe stato in grado di ottemperare ad un ruolo, che non è solo spinoso dal punto di vista della ricostruzione, bensì altrettanto complesso nella necessità di preservare un contenuto narrativo ed emotivo forte capace di bypassare la semplice analisi filologica. "Hugo" è una gigantografia del cinema, dell'uomo Méliès, della sua storia personale, ascesa e discesa della fortuna, riabilitazione finale, attitudine al lavoro e passione, soprattutto passione creativa (con la costruzione dello studio e del teatro Robert Houdin) ma è anche una storia che si forma nel film (sceneggiatore John Logan che aveva già preso parte, guarda caso, allo Sweeney Todd di Burton), storia di un bimbo dickensiano, di un automa antopoformo, di un meccanismo che conduce al cuore delle cose e della vita attraverso chiavi, mezzi di comunicazione accidentali con un mondo dimenticato e spazzato via dall'insorgere delle realtà drammatica della prima guerra. Storia di buoni e non di cattivi (anche l'inspettore burbero di Sacha Baron Cohen si ricrederà) di speranze disattese e di possibilità riaperte, di citazioni, saccheggi, di spezzoni montati, di pagine che si animano (l'enciclopedia del cinema con i frammenti di opere storiche che si paventano sullo schermo) . E, da non sottovalutare, Storia di una Parigi realistica e fantastica insieme, ricostruita dal duo Ferretti/Lo Schiavo, in marcia per ipotecare il terzo Oscar da art director. Un film immenso, tecnicamente validissimo, che impressiona anche per capacità di empatia con il pubblico, grazie anche ad un cast eccezionale e a non protagonisti efficaci nella rappresentazioni di scenette quotidiane che fungono da intermezzi. In più i due giovani ma già noti Asa Butterfield e Chloë Grace Moretz davvero perfetti per la parte.
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