Il complesso residenziale di Revolutionary Hill non era stato progettato in funzione di una tragedia.
Frank e April Wheeler sono giovani, sposati, hanno due bambini, una casa in un quartiere residenziale che risponde al nome, ambizioso, di Revolutionary Hill. E conducono una vita all’insegna della normalità: lavora (lui), sta a casa (lei). Qualche serata a casa di amici, oppure sono gli amici a raggiungerli nella loro dimora. Per parlare di quello che succede all’America, là fuori, in quegli anni Cinquanta che Hollywood e telefilm hanno celebrato come idilliaci. Ma non erano affatto così, agli occhi di chi voleva vedere.
Forse April ha una percezione diversa della situazione, Frank è solo lingua e bei discorsi. Perché anche in quel quartiere normale è impossibile ignorare la lenta opera di assimilazione che viene portata avanti. Infatti è April che ha l’idea di piantare tutto, andare a Parigi e ricominciare. L’Europa come via di fuga, Terra Promessa?
Può darsi, ma ben presto il progetto s’incaglia, svanisce, tutto sembra finire, finché il dramma soffocato da compromessi, pigrizia e paure, esplode nel modo peggiore.
“Revolutionary Road” di Richard Yates è un’elegante indagine su un massacro che si è consumato nel silenzio.
Elegante perché la lingua di Yates (ma è impossibile lasciare nell’ombra la traduttrice, Adriana Dell’Orto) cattura il lettore e a condurlo in una discesa nel cuore dell’America con una precisione chirurgica.
Prende per mano il lettore e lo trasporta, per esempio, nell’ambiente della Knox, l’azienda dove lavora Frank, e dove aveva trascorso la vita suo padre. E rende alla perfezione la noia, i riti quotidiani privi di senso (dove anche l’adulterio consumato con una segretaria è solo una questione da affrontare con correttezza per non turbare l’amore per il conformismo); la struttura mastodontica e inutile dell’azienda, che consuma tempo ed esistenze in attesa di… Qualche bevuta, il ritorno a casa, il pranzo, la moglie, i figli.
Indagine perché Yates prende quello che lui vedeva (che noi avremmo visto anni dopo al cinema o in televisione), e lo osserva con un’attenzione quasi maniacale fino a farne emergere il volto autentico. Hollywood dopo la Seconda Guerra Mondiale è chiamata a magnificare lo stile di vita americano, l’unico vincente. Televisione (“Niente male come orrore la televisione” dirà infatti Flannery O’Connor), e pubblicità saranno anch’esse della partita.
E il volto che questo autore propone (e la maggior parte dei lettori americani rifiuteranno) è appunto una realtà piatta, fasulla, dove l’individuo perde i suoi connotati per diventare semplice rotella di un meccanismo che macina benessere, ma produce infelicità. Un massacro, appunto.
Non per quello che accade a uno dei protagonisti della storia; non è quello il massacro perché in un certo senso, quella fine è un epilogo ovvio, quasi da manuale, terribile eppure quasi atteso.
Il massacro sta nell’assuefazione alla mediocrità che i vicini di casa di Revolutionary Hill (sono gli ultimi della fila però), adottano. Quasi che la tragedia sia il rimasuglio di un brutto sogno, e basti mettersi all’opera alacremente per cacciarla nel regno delle ombre. Esattamente come fa la signora Givings, brava soldatessa di quel sogno americano desideroso di forze fresche, che si ingegnano ad aumentare il benessere. E l’unico ad avere sufficiente lucidità per comprendere quello che accade attorno a sé, non a caso è un pazzo, rinchiuso in un ospedale psichiatrico; il figlio dei coniugi Givings.
Ed è con il silenzio che si chiude questo piccolo ma potente romanzo. Non è però quello di chi desidera comprendere, o ha compreso, e allora spinge via tutto quello che turba o distrae. Bensì di chi non ha più forza né voglia, e si sprofonda in un mondo privo di suoni perché la parola è solo chiacchiera senza scopo.
Revolutionary Road – Richard Yates (Traduzione a cura di Adriana Dell’Orto. Editore Minimum Fax).