Di Gabriella Maddaloni. Alla fine l’hanno “giustiziata”- le virgolette non le ho messe a caso. Impiccata per volere del tribunale della Repubblica Islamica di Teheran, perché 7 anni fa uccise l’uomo che tentò di stuprarla. Reyaneh Jabbari è morta, impiccata nella prigione di Teheran dove era rinchiusa, alle ore 24 della notte tra venerdì e sabato. Secondo la famiglia della giovane, il figlio dell’uomo che uccise ha tolto lo sgabello da sotto i suoi piedi.
Rayaneh venne condannata a morte nel 2009, dopo un sommario processo che mai tenne conto della sua testimonianza: “Ho ucciso per legittima difesa, stava per violentarmi”. La “vittima” – il carnefice!- era Morteza Abdolali Sarbandi, ex dipendente dell’Intelligence iraniana. A nulla sono valsi i numerosi appelli e campagne di organizzazioni come Amnesty International, della famiglia della giovane che supplicava gli organismi internazionali di far pressione su Teheran affinché la ragazza avesse salva la vita. Ci sono stati vari rinvii della sua esecuzione, l’ultimo il 30 settembre scorso. Ma, sostiene Teheran, l’unica possibilità di salvezza era nel “perdono” scritto della famiglia di Sarbandi. Perdono che sarebbe stato concesso a patto che Reyaneh negasse il tentativo di stupro. Ma la giovane ha preferito morire, piuttosto che negare il sopruso subìto.
In barba alle pari opportunità tanto declamate in Occidente, alle campagne contro la violenza sulle donne, la magistratura iraniana ha ucciso una donna perché “rea” di essersi difesa da un “uomo” che voleva abusarne. Potrei citare numerosissimi esempi analoghi, ma la tragica verità è che Reyaneh non è la prima e non sarà l’ultima donna a morire di questa sorte. C’è realmente da meravigliarsi, quindi? Personalmente, assieme alla rabbia mi avviluppa solo una rassegnata, stagnante impotenza.
Nei paesi Occidentali, le donne vengono massacrate ogni giorno da uomini, spesso partner o ex partner, senza che vi siano leggi adeguate volte a tutelarne l’incolumità, Italia inclusa. Nei Paesi mediorientali, idem. E se provano a difendersi da sole vengono uccise dalla cosiddetta “Legge” che dovrebbe proteggerle. La rabbia e l’impotenza derivano quindi dall’impossibilità di trovare una soluzione alla violenza, che evidentemente non ha confini, nazionalità, classe sociale, etnia. Mi picchiano, mi stuprano, o abusano di me psicologicamente. Se denuncio, non c’è una legge adeguata che mi tuteli. Se mi difendo da sola, finisco ammazzata dalla legge stessa (in Medio Oriente), o messa dietro le sbarre da quella medesima “Legge” che, non proteggendomi, mi obbliga a commettere “reato” per difendermi (in Occidente).
È così che oggi si intende una “società civile”? Continuando ad accettare, ufficialmente o sottobanco, l’idea che un uomo possa disporre di una donna a suo piacimento come una realtà atavica ed immutabile?