Riapriamo le case chiuse

Creato il 28 giugno 2013 da Gabrielepazzaglia @gabrytango

Smettiamo di fare i moralisti e i bigotti, tutti sanno che esiste la prostituzione e non per niente viene chiamato il mestiere più antico del mondo. Nessuna proibizione riuscirà mai a eliminarla, quindi perché non regolamentarla? Io sono a favore della prostituzione, purchè non ci sia lo sfruttamento e si abbia un’età adeguata per essere in grado di ponderare questa scelta. Lo ritengo come un qualsiasi altro lavoro, e per tale dovrà avere delle regole che potranno essere simili ad altri lavori: contratto collettivo del lavoro, sindacato, orario lavorativo, visite mediche etc. per chi volesse svolgere la libera professione, l’apertura della partita iva con annessi e connessi – INPS - IRAP - INAIL e tutto il resto. Dovrà essere una libera scelta; ci sarà chi lo farà per vocazione unendo l’utile al dilettevole, e chi per bisogno tirando la carretta per arrivare a fine mese, e qui vi voglio. Direte che non è giusto perdere la dignità per guadagnarsi il pane, vendere il proprio corpo; e chi va a fare il lavapiatti a 10 ore al giorno per sette giorni a 500 € al mese pensate che sia dignitoso? chi è laureato e si è specializzato magari in ingegneria e si ritrova ad essere impiegato in un ufficio acquisti a 1000 € al mese pensate che sia giusto e dignitoso vendere il proprio intelletto? c’est la vie! è la vita, c’è chi si realizza e chi tira a campare. Una regola di fondo: che in ogni modo non si debba sfruttare e mancare di rispetto a chi lavora ” il Lavoratore – trice ” che sia operaio, impiegato, o prostituta. Quindi perché non riaprire le case di tolleranza chiuse? Per lo stato una fonte di reddito, per le lavoratrici una tutela, per i cittadini un maggior decoro ( togliendole dalle strade ) e uno svago! ” degustibus “

LE CASE CHIUSE IN ITALIA NEL NOVECENTO

In italiano, per indicare un concetto, spesso, si usano numerosi sinonimi. I luoghi di piacere a pagamento, hanno nel gioco dei sinonimi un particolare spazio, venendo indicati come postriboli, case di piacere, bordelli, lupanare, casini, case chiuse o anche case di tolleranza. Indubbiamente, però, il termine più adatto per indicarli è case di tolleranza. Perché, gestiti da privati, erano tollerati e rigidamente controllati dallo Stato. Per trattare dell’argomento, non necessario risalire a Adamo ed Eva e chiedersi se lei la mela a lui la diede gratis o dietro corrispettivo, ma risulta indispensabile fare un poco di storia. Fu Camillo Benso conte di Cavour che, nel 1859, introdusse nel Regno di Piemonte il ”meretricio di Stato”, un’apposita legislazione, con fini igienico sanitari, con la quale si disponeva che la gestione di “case” fosse sotto il diretto controllo dello Stato. La norma, che organizzava i postriboli sabaudi sul modello delle “maisons” napoleoniche Francesi, con l’unità d’Italia venne estesa all’intero “Stivale”. Fu il 15 febbraio 1860 che Cavour emanò il “Regolamento del Servizio di sorveglianza sulla prostituzione”. Le leggi che si susseguirono fecero si che, agli inizi del ‘900, la legislazione operante in Italia regolamentasse molto rigidamente l’attività in questione. Una norma del 1988 obbligava chi gestiva le “case” a tenere le persiane incatenate – da cui il nome di “case chiuse”- e le “signorine di piccola virtù” che vi prestavano la propria opera ad essere sottoposte a periodici controlli sanitari. Il Regime fascista introdusse ulteriori misure tese ad isolare gli istituti di piacere, obbligando i tenutari, intestatari di nuove licenze, ad circondarli con muri alti almeno dieci metri. Normalmente, si trattava di palazzine a più piani, ove al primo piano le ragazze incontrano i clienti, mentre, nelle camere ai piani superiori si passa alle vie di fatto. L’imprenditore, ovvero il “tenutario”, ma molto più spesso la “tenutaria”, una ex sacerdotessa del sesso a pagamento fuori attività per sopraggiunti limiti d’età, erano registrati e sottoposti ad autorizzazione di polizia. D’altronde, l’intero mondo del “meretricio di Stato” era una lunga sequela di autorizzazioni e controlli, sia sanitari che di polizia. Il legislatore metteva il naso praticamente  dappertutto, regolamentando anche i tempi e i prezzi delle prestazioni e obbligando ogni casino all’esposizione delle tabelle dei prezzi. Si pensi che, negli anni precedenti al Regime, Urbano Rattazzi aveva disposto con un Decreto Ministeriale che un “colloquio semplice” dovesse durare al massimo venti minuti. Il Ministro degli Interni, Giovanni Nicotera, Nel 1891, aveva poi disposto che il prezzo di un “semplice intrattenimento”, in una casa di terza classe, fosse diminuito, portandolo dalle due lire, disposte da un precedente Decreto, a una lira. Il Decreto a cui si fa riferimento fissava i prezzi dalle cinque lire, per le case di lusso, alle due lire per le case popolari, in considerazione del fatto che un operaio all’epoca guadagna circa tre lire al giorno. Ulteriori sconti erano previsti dal Nicotera per soldati di leva e sottufficiali. Le tabelle dei prezzari cambiavano, quindi, a seconda della categoria del bordello che variava in corrispondenza del lusso degli ambienti e, chiaramente, dell’avvenenza delle graziose operatrici del settore che vi lavoravano. Vi erano perciò bordelli per professionisti e per operai, come pure bordelli per ufficiali e bordelli per la truppa. Le ragazze che lavorano in questi ultimi erano una vera e propria istituzione, prendendosi cura dei corpi dei poveri soldatini di leva, allo stesso modo in cui il cappellano militare si prendeva cura delle loro anime. Trattato dell’aspretto normativo, passiamo adesso a parlare delle signorine impegnate nella nobilissima attività in questione. Le ragazze, reclutate dai “collocatori”, assumevano nomi di fantasia o nomignoli che ne denotano la provenienza geografica o la specialità erotica. C’era così la Marchigiana, la Tripolina o anche la Sorbona, dal verbo sorbire e, per carità, non mi si faccia aggiungere altri particolari su che cosa fosse brava a sorbire la ragazza. I gruppi di signorine ruotavano con scadenza quindicinale e, allo scadere delle due settimane, vi era un riciclo delle forze presso ogni bordello, tanto che le nuove ragazze venivano indicate come “la nuova quindicina”. Memorabile è la scena dell’Amarcord felliniano nella quale le signorine della nuova quindicina vengono portate a spasso in carrozza scoperta dalla tenutaria per metterle in mostra. Le graziose cocotte arrivavano sempre ed indispensabilmente accompagnate da un aggiornatissimo libretto sanitario. Prese in carico dalla nuova casa ne occupano una stanza e vi soggiornano “a pensione”. Infatti, oltre a dovere alla tenutaria la metà dei propri guadagni, dovevano pagare per l’ospitalità e per il vitto, motivo per il quale venivano indicate dalla tenutaria come: “le pensionanti”. E’ inutile dire che in tali pagamenti le ragazze venivano veramente sfruttate, dovendo spesso sottostare a prezzi da capogiro. La “pensionante”, per tutto il tempo che sarebbe restata in quella casa, sarebbe, poi, stata sottoposta a settimanali controlli ginecologici per fugare il pur vago sospetto di malattie venere. Bastava il solo dubbio di infezione perché la signorina venisse sospesa dall’attività. Nel corso della mattinata le pensionanti restavano in camera a dormire, in quanto, negli orari mattutini una sola di loro era disponibile per chi non avesse altri orari a disposizione oppure fosse in preda ad un feroce attacco di priapismo. Di sera, invece, scendevano in un salottino al piano terra ove, in abiti succinti, attendevano i clienti. Non tutti quelli che entravano in quel salottino volevano realmente andare a letto. Molti di loro erano solo squattrinati che facevano il giro dei casini della città, andando a fare “flanella”, cioè a perdere tempo. Era la tenutaria a far di tutto per tenere alla larga i “flanellisti” e, nei bordelli di basso rango, lo faceva con maniere molto spicce. Una volta scelta dal cliente, la pensionante non poteva rifiutarlo. Pagato il prezzo, il cliente riceveva uno scontrino, di solito un circoletto di metallo con un buco al centro, chiamato “marchetta” . Lo avrebbe consegnato in camera alla ragazza e, a fine serata, era il numero delle marchette consegnate alla tenutaria a definire il compenso che spettava a ogni “operatrice”. Tutte le camere era dotate di lavandino e bidè e vi aleggiava perennemente un odore di lisoformio. Negli anni a venire, una delle tante benpensanti prestate alla politica, descrivendo in televisione le cose turpi che in quei luoghi avvenivano e, in riferimento al bidè, avrebbe detto: “immaginate che le poverine dovevano anche lavarli”.  Senza sapere che, mentre “li lavavano”, “le poverine” si accertavano anche che il cliente non fosse affetto da malattie venere. Se si dovesse chiedere chi è che andava al casino, la risposta dovrebbe necessariamente essere: tutti, poveri e ricchi, vecchi e giovani. I giovani ci andavano per vedere se tutto funzionava e i vecchi ci andavano per vedere se tutto funzionava ancora. Se nella saletta d’attesa veniva chiesto il “libero”, significava che tutti i clienti dovevano sgomberare perché arrivava un alto personaggio che non voleva farsi vedere e non era infrequente che in quella saletta transitassero prelati e importanti politici o che i padri avessero la sventura di incontrare i figli e viceversa. Il mondo delle case di tolleranza sarebbe finito grazie alla senatrice socialista Angela Merlin che avrebbe iniziato la battaglia per la chiusura delle case agli inizi degli anni cinquanta presentando un progetto di legge. Benché approvato dal Senato nel 1952, quest’ultimo non andò in porto a causa della fine della legislatura. La senatrice avrebbe ritentato l‘anno seguente, ripresentando il suo progetto di legge che, osteggiato da missini e monarchici, sarebbe diventato legge dello Stato nel 1958. La legge Merlin entrò in vigore a mezzanotte del 20 settembre 1958 decretando la chiusura 560 bordelli con 3353 posti letto e mettendo in mezzo a una strada – è proprio il caso di dirlo – le 2705 signorine che vi lavoravano. La chiusura fu per l’italiano medio, abituato a trovare nel bordello la celebrazione della propria mascolinità, un vero trauma e tali e tante furono le proteste che se l’argomento non fosse stato di tipo godereccio, ci sarebbero stati  tutti i requisiti per far scoppiare una insurrezione popolare. La “Merlin”, chiudendo le “case” non chiuse certo con la prostituzione anche perché non penso che vi sia un sistema normativo capace di raggiungere tale scopo. Volendo trarre delle conclusioni è da dire che quello che era prima della “Merlin” l’ho descritto e quello che è stato dopo la “Merlin” è sotto gli occhi di tutti, tutti i giorni. Non penso che la situazione attuale sia migliore di quella precedente e forse della cosa bisognerebbe riparlarne, con più serenità e, soprattutto, con più onestà intellettuale. Per quanto mi riguarda non ce la faccio più a sentire quelli che, parlando di prostituzione, fanno finto finta di inorridire, sollevando subito lo scudo contro lo “sfruttamento del corpo della donna”. Costoro o sono ciechi o imbecilli o veramente in mala fede in quanto si rifiutano di vedere che nelle nostre strade si prostituiscono non sol donne ma uomini, donne, ragazzini e ragazzine e mi chiedo se non sia ormai giunta l’ora di smettere di far finta di non vedere e di non capire.



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