di Simone Vettore
In realtà effettuare un confronto con il piano predisposto oltre un secolo fa dall’ammiraglio Alfred von Tirpitz per la realizzazione di una Hochseeflotte, seppur affascinante e per certi versi pure calzante, è operazione assai pericolosa dal momento che ciò implica ricorrere ad una chiave di lettura che è, per certi versi, “datata” e che va dunque usata con estrema cautela. Emblematico lo stesso tipo di approccio teorico con il quale si tratta l’argomento: si è infatti soliti affermare, quasi si trattasse di un assioma infallibile, che l’obiettivo cui devono tendere le marine militari di quegli stati che hanno ambizioni di potenza globale, o anche solo regionale, sia l’esercizio del potere marittimo (sea power) e che quest’ultimo, a sua volta, sia ottenibile a patto di possedere una flotta d’altura capace di proiezioni oceaniche. In buona sostanza non solo si riesuma un fenomeno storico vecchio di oltre un secolo ma ci si rifà pure ad una corrente di pensiero, detta deep/blue water school, che tutto è tranne che “nuova”! Essa infatti è stata concretamente applicata in modo pressoché sistematico, seppur talvolta inconscio, dalla Royal Navy lungo tutta l’età moderna e per buona parte della contemporanea, anche se per una compiuta teorizzazione si sarebbe dovuto aspettare il contrammiraglio statunitense Alfred Thayer Mahan [1]: quest’ultimo, analizzando i principali conflitti succedutisi dal 1660 al 1783, giunse infatti a sostenere che le nazioni marittime, purché in possesso di una sufficientemente sviluppata catena di basi poste presso i principali snodi delle rotte commerciali e purché dotate di una adeguata flotta, potevano controllare (ed eventualmente bloccare a piacimento) i commerci che si svolgevano sugli oceani, impedendo pertanto agli eventuali imperi continentali di affacciarvisi (o perlomeno di affacciarvisi in modo minaccioso).
Per completezza sarebbe opportuno ricordare, ma pochi lo fanno, che a fianco di questa teoria, che andava per la maggiore, sul finire dell’Ottocento circolavano almeno altre due scuole che seppur minoritarie erano in grado di raccogliere un cospicuo e qualificato gruppo di fautori: la prima, definita brick & mortar, era paradossalmente diffusa proprio in ambienti dell’Ammiragliato britannico e proponeva, partendo dalla constatazione dei progressi dell’artiglieria costiera (ed in prospettiva di quelli dei siluri, arma allora agli albori) ed alla luce dei crescenti costi delle unità navali (che proprio in quegli anni da lignee e con propulsione velica si trasformavano in corazzate con propulsione a vapore), di garantire la difesa in primo luogo dell’arcipelago britannico ma anche delle principali basi dell’Impero, facendo affidamento su difese essenzialmente statiche. La seconda era la jeune école dell’ammiraglio francese Aubé la quale propugnava la costruzione di elevate quantità di naviglio minore, come torpediniere e sommergibili costieri: questi mezzi, armati dapprima di mine ad asta e di siluri in un secondo momento, sarebbero stati scagliati in sciami contro le preponderanti forze della Royal Navy [2].
Chi scrive ritiene che queste ultime due scuole, oggi come allora, rappresentino un paradigma interpretativo assai più stimolante rispetto a quello della blue water school dal momento che, di fronte al talvolta generico invito a “dominare il mare” lanciato da quest’ultima, 1) impongono l’effettuazione di attente valutazioni strategiche sui principali “nodi marittimi” da difendere, verosimilmente attraverso un equilibrato mix di difese litoranee (che oggigiorno non sono comunque statiche) e mezzi navali impiegati in prossimità della costa; inoltre 2) queste due “correnti di pensiero”, anziché propugnare in modo dogmatico la realizzazione di capital ship (ieri corazzate, oggi portaerei) necessarie per affermare lo status di potenza marittima dello Stato che le possiede piuttosto che per precise esigenze operative, risultano essere più “adattabili” e flessibili [3] e questo perché, senza con ciò cadere nel determinismo tecnologico, sono tendenzialmente più recettive nei confronti delle novità tecnologiche e di qui, a cascata, non solo meno tradizionaliste ma anzi tendenzialmente più aperte alle sperimentazioni in fatto di nuovi armamenti e nuove tipologie di imbarcazioni. Purtroppo l’analisi dei piani di riarmo intrapresi dai principali Stati asiatici porta alla rapida conclusione che essi non brillano certamente per originalità.
Non rientra tra gli obiettivi di questo articolo effettuare una rassegna caso per caso [4] ma è comunque utile delineare quello che è l’attuale trend. Sorvolando qui sugli Stati Uniti, talassocrazia per eccellenza che peraltro ha significativamente deciso di rischierare il 60% della propria flotta nel Pacifico, balza infatti subito agli occhi che tutte le principali potenze di questo scacchiere ambiscono a rafforzare o a creare una propria flotta d’altura; è il caso, giusto per fare nomi e cognomi, del Giappone, della Corea del Sud, dell’Australia e naturalmente della Cina.
Simbolo della volontà di solcare le blue water è la presenza o la prossima entrata in servizio di portaerei/portaeromobili: se ad attirare la curiosità dei media e degli osservatori è stata per ovvi motivi la cinese Lyaoning (risposta alla pur vecchiotta indiana Viraat [5]) non si dovrebbero dimenticare la giapponese Hyuga (ufficialmente una portaelicotteri, anche se la soluzione tuttoponte e la stazza non lascia dubbi circa il possibile utilizzo come portaerei), la sudcoreana Dokdo, la thailandese Chackri Naruebet (ex Principe de Asturias) e le due prossime LHD australiane classe Canberra. Ovviamente la presenza nella flotta di unità di questo tipo impone a sua volta l’immissione in servizio di navi rifornitrici/ausiliarie, cacciatorpediniere di scorta, sottomarini, etc. il che non fa che accrescere le dimensioni complessive della flotta stessa, con gli immaginabili costi.
Che il desiderio di operare in acque “più blu” sia proprio non solo degli Stati più ricchi e potenti che possono permettersi le portaerei ma anche delle marine minori lo si evince dalle scelte effettuate da queste ultime in fatto di sottomarini. In effetti le numerose acquisizioni eseguite sul mercato dell’usato (e gli assai meno diffusi progetti portati avanti in house) nel corso degli ultimi vent’anni testimoniano come anche per questa che è notoriamente considerata l’arma navale dei deboli valga la regola su descritta: in modo praticamente sistematico non appena le condizioni (tecnologiche, di bilancio, di esperienza degli equipaggi) si sono rese propizie si è passati da sottomarini di dimensioni contenute adatti ad operare in zone costiere a sottomarini d’altura diesel-elettrici in un primo momento per finire, ai giorni nostri, agli avanzati sottomarini con alimentazione AIP [6] e con la nemmeno celata speranza di possederne uno, un giorno, a propulsione nucleare. Di quest’ultimo tipo attualmente nel Pacifico ne sono presenti in servizio nove con le marine cinese ed indiana (quest’ultima in realtà ha affittato il suo Chakra II dalla Russia) mentre ben 14 sono in costruzione e potrebbero ben presto diventare ancor più numerosi se i desiderata degli ammiragli di Australia, Corea del Sud, Giappone, etc. dovessero trasformarsi in realtà.
L’obiettivo di possedere flotte d’altura è stato perseguito con successo pure dalle marine militari di Taiwan e Singapore, anche se in questo caso lo strumento prescelto per compiere il salto di qualità non è stato la classica portaerei bensì avanzate fregate stealth derivate dalle La Fayette realizzate per la Marine Nationale a partire dai primi anni Novanta dello scorso secolo [7].
Poiché si tratta di due Stati che tradizionalmente hanno sempre saputo dosare nelle giuste proporzioni qualità e quantità ritengo sia il caso di analizzare in modo più approfondito condizioni di partenza ed operato di queste due Marine che presentano, al di là della occasionale scelta del medesimo fornitore estero, interessanti analogie ed offrono parecchi spunti di riflessione utili per il prosieguo del discorso.
Innanzitutto tanto Singapore quanto Taiwan sono stati insulari di ridotte dimensioni (il primo misura poco più di 600 Km²) ma densamente popolati e con un’economia sviluppata tale da assicurare un elevato PIL pro capite. Entrambi poi hanno a che fare con vicini ingombranti dai quali hanno ottenuto l’indipendenza in maniera travagliata: Singapore aderì per due anni (dal 1963 al 1965) alla Federazione Malaysiana distaccandosene in un secondo momento in modo pacifico ma dovendo comunque difendersi, specie nelle fasi iniziali, dalle brame dei ben più estesi vicini (Malaysia ovviamente ma anche Indonesia); dal canto suo la Repubblica di Cina, comunemente detta Taiwan, non è nemmeno riconosciuta come Stato indipendente, tanto meno da Pechino che la considera una “provincia ribelle” colpevole di ospitare le sopravvissute truppe del Kuomintang (il partito nazionalista di Chiang Kai-shek), una volta che la Cina continentale cadde (nel 1949) nelle mani di quelle comuniste guidate da Mao Tse-tung. Oltre alle vicissitudini storiche un altro tratto in comune deriva dalla simile collocazione geografica: entrambi si affacciano su di un braccio di mare dall’elevatissimo valore strategico ed attraverso il quale transita buona parte delle merci mondiali ovvero, rispettivamente, lo stretto di Malacca e quello di Formosa. In linea con queste premesse appare normale che per Singapore e Taiwan le rispettive marine abbiano rappresentato e rappresentino la principale assicurazione sulla vita, essendo l’unica barriera capace di interporsi tra di loro e vicini dalle dimensioni gigantesche e dalle intenzioni non esattamente amichevoli.
Ebbene, alla luce di tutto ciò ci si sarebbe dovuti aspettare che lo strumento navale predisposto fosse congeniato in modo da bloccare, se necessario, gli stretti sui quali ci si affaccia in modo da far pesare nei consessi internazionali la propria favorevole posizione geografica (obiettivo strategico) e di impedire all’avversario l’eventuale attacco al proprio territorio contendendogli il mare limitrofo attraverso il quale dovrebbe necessariamente transitare la flotta d’invasione (sea denial come obiettivo tattico). Entrambi questi obiettivi, tuttora validi, sono ottenibili approntando una buona aviazione [8] e dotandosi di numeroso naviglio minore (corvette, pattugliatori veloci, sottomarini, etc.). Ecco perché la scelta di costituire una flotta con capacità d’altura di un certo rilievo appare per molti versi un controsenso rispetto a quelle che sono le reali esigenze ricavate dall’analisi del contesto operativo e dai requisiti che di conseguenza si dovrebbero fissare [9].
Se questo è ciò che suggerisce la stringente logica militare, alcuni potrebbero a buon diritto sostenere che, in un’economia altamente globalizzata ed integrata qual è quella contemporanea, la sopravvivenza di uno Stato dipende in misura maggiore che in passato dagli approvvigionamenti provenienti dall’esterno; potrebbe pertanto apparire comprensibile che anche Stati di ridotte dimensioni si preoccupino di tenere aperte le proprie rotte commerciali ed a tal fine predispongano uno strumento militare idoneo allo scopo (ovvero una flotta d’altura).
In realtà anche questo assunto mi sembra vada rigettato: recenti studi sul traffico mercantile basati sull’AIS (Automatic Identification System), ovvero su quel sistema automatico di tracciamento delle rotte seguite dalle navi, hanno dimostrato che quest’ultimo avviene prevalentemente sotto costa (avvolgendo in pratica l’intera massa delle terre emerse) e solo quando necessario, come nel caso delle traversate atlantiche e pacifiche, si svolge in mare aperto [10].
In altri termini se la giustificazione che si dà alla costituzione di flotte d’altura è quella che esse servono a bloccare le linee vitali (SLOC, Sea Lines of Communications) dei potenziali nemici ed a mantenere le proprie, si sta dicendo una mezza bugia: allo scopo, essendo la maggior parte delle linee vitali vicine alla costa, sono più che sufficienti mezzi navali di dimensioni più contenute. Se poi invece si ambisce a possedere mastodontici gruppi di portaerei di squadra in virtù delle loro “classiche” capacità di proiezione di potenza (leggasi: attacco a nazioni ostili nel caso in cui non si disponga di basi d’appoggio in prossimità, protezione di eventuali corpi da sbarco, etc.) allora bisognerebbe valutare l’opportunità di sviluppare con altrettanta abbondanza di risorse anche navi anfibie, RO-RO, bombardieri strategici o ancor meglio UCAV, etc. e non solo le portaerei!
Mi pare pertanto trovare conferma l’opinione, precedentemente espressa, che il riarmo navale in atto in Estremo Oriente si incentri su mezzi spesso e volentieri poco congrui con quelle che sono le effettive esigenze; se non inutile – benché costoso -, il possesso di spiccate capacità d’altura appare in gran parte superfluo.
Del resto, sarà perché già possiedono i loro bei CVBG (Carrier Battle Group), ma gli stessi Stati Uniti stanno da almeno un ventennio cercando di realizzare una nave di dimensioni contenute, potentemente armata, veloce e soprattutto adatta a combattere in prossimità delle coste. Gli esperti del Naval War College infatti, partendo dalla constatazione oggettiva che la maggior parte dei commerci, delle attività manifatturiere, delle città, della popolazione mondiale sono concentrate in una fascia di terra che va dalla costa a 100 km verso l’interno, sono giunti alla conclusione che eventuali scontri navali avverranno proprio in prossimità delle coste. Purtroppo realizzare imbarcazioni che rispondano a questi requisiti si sta dimostrando più difficile del previsto ed i tagli al bilancio non hanno di certo aiutato: sta di fatto che dopo l’abortito progetto per realizzare quella che a suo tempo veniva chiamata “arsenal ship” ed il drasticamente ridimensionato progetto DD-21 (dal quale sono comunque scaturiti i cacciatorpediniere classe Zumwalt tuttora in cantiere), attualmente sono ancora in fase di valutazione quelle che sono state significativamente denominate Littoral Combat Ship [11] e che così vengono descritte nel sito ufficiale dell’U.S. Navy:
“LCS is a fast, agile, focused-mission platform designed for operation in near-shore environments yet capable of open-ocean operation. It is designed to defeat asymmetric anti-access threats such as mines, quiet diesel submarines and fast surface craft” [12].
Poche righe nelle quali da un lato non si manca di sottolineare la capacità delle LCS di operare negli oceani ma dall’altro si dimostra la piena consapevolezza che queste navi dovranno fronteggiare le sfide asimmetriche del XXI secolo e che, soprattutto, tali sfide avranno luogo in acque litoranee.
Anche in questo caso si può obiettare, e non a torto, che le sfide che deve fronteggiare la talassocrazia statunitense sono specifiche e non generalizzabili e quindi ciò che va bene per Washington potrebbe non andar bene per Tokyo, Taipei, Seoul oppure ancora per Manila.
Posto che non è mai male tenersi aggiornati su quanto fanno le altre marine, andiamo dunque a guardare quali sono i possibili punti d’attrito dello scacchiere asiatico e quali i mezzi idonei per meglio fronteggiare eventuali situazioni di crisi / conflitti.
La prima cosa che salta all’occhio è che, al di là del comune timore per il Dragone cinese, vi è una intricata rete di dispute territoriali che oppongono un po’ tutti contro tutti: lo Scarborough Shoal appartiene alle Filippine ma viene rivendicato da Cina e Taiwan; queste ultime due accampano pretese anche sulle Senkaku, che però sono amministrate dal Giappone; al contrario le Paracel sono governate da Pechino sin dal 1974 ma sono rivendicate da Taiwan e soprattutto dal Vietnam (il possesso di queste isole è stato uno dei motivi del conflitto sino-vietnamita del 1979); la situazione delle Spratly è ancor più ingarbugliata dal momento che alcune isole di questo arcipelago sono occupate de facto da Cina, Taiwan, Filippine, Vietnam e Malaysia, stati che rivendicano (assieme al Sultanato del Brunei) la sovranità sulle poche altre ancora disabitate,
A queste dispute territoriali vanno poi aggiunti i secolari contrasti tra Cina e Giappone, Giappone e Corea, Cina e Corea, tra Cina ed India e quelli più recenti tra Cina e Taiwan, Cina e Vietnam [13] ed ovviamente quelli tra Corea del Nord da una parte e Corea del Sud e Giappone dall’altra (anche se ultimamente verrebbe da dire, prendendo a prestito una terminologia boxistica, Pyongyang VS Resto del mondo).
Contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale; Fonte: Affari Internazionali
Si tratta evidentemente di una situazione molto frammentata ma che ha il pregio, proprio per questo, di offrire alcuni interessanti spunti di riflessione. Carta geografica alla mano si constata infatti come queste aree siano tutto fuorché in pieno Pacifico: la pretesa che servano flotte d’altura perde dunque di consistenza dal momento che verosimilmente le operazioni avrebbero luogo nelle ben più “chiuse” (in senso relativo s’intende) acque del Mar del Giappone, del Mar Cinese Orientale e del Mar Cinese Meridionale. In questi mari, come argomentato lungo tutto il corso di questo articolo, marine militari basate su un giusto mix di naviglio di dimensioni contenute darebbero il meglio di sé e l’indispensabile copertura aerea, date le distanze in ballo, potrebbe tranquillamente essere assicurata da velivoli basati a terra (specie se si dovesse pure rifornirli in volo [14]).
Sempre l’analisi della carta geografica mette in evidenza come la situazione della Cina non sia favorevole: chiudendo a sud lo stretto della Malacca, a nord lo stretto di Corea ed al centro i passaggi verso le distese del Pacifico centrale (facendo perno sulle Ryukyu – con Okinawa – e su Taiwan) si isolerebbe virtualmente Pechino. Certo, si tratta di un compito tutt’altro che agevole ma Pechino, con il suo atteggiamento inutilmente aggressivo [15], sta riuscendo nell’impresa altrimenti proibitiva di far avvicinare tutti i suoi vicini, cosa che renderebbe l’imposizione di questa sorta di “camicia di forza” assai più agevole.
In effetti per molteplici motivi (dalle succitate contese territoriali ai rancori legati a guerre passate, dalla sopravvivenza di alcune delle vecchie relazioni coloniali alla presenza di numerosi paesi che un tempo si definivano Non Allineati, dalle differenze religiose a quelle culturali) nella regione asiatico-pacifica non è mai stato possibile creare qualcosa di simile alla NATO. Alcuni osservatori ritengono ottimisticamente che lo spauracchio cinese potrebbe fornire la giusta spinta ma per il momento va solamente registrata la stipula, da parte degli Stati Uniti, di molteplici trattati di amicizia/accordi di collaborazione bilaterali. È del resto altamente probabile che Washington non abbia interesse a siglare trattati troppo vincolanti come l’Alleanza Atlantica ed il suo Articolo 5, tanto più in considerazione del fatto che ci vorrebbero decenni (o massicci aiuti/cessioni gratuite di materiale) prima di raggiungere la necessaria standardizzazione ed interoperabilità. Meglio dunque percorrere vie più brevi nella convinzione, questo sì, che nell’area del Pacifico siano in ballo i futuri equilibri planetari.
Tutti questi elementi lasciano dunque presagire che anche nel prossimo futuro ognuno continuerà ad andare avanti per la propria strada: il pericolo, in simile contesto, è che vengano sprecate utili risorse e che, cosa ancora peggiore, seguendo falsi miti vengano approntati strumenti militari (inclusi quelli navali) non idonei.
Per concludere, in questo articolo si è tentato di effettuare una analisi qualitativa del riarmo navale in atto in Estremo Oriente, laddove la maggior parte degli altri commentatori si limita a farne una meramente quantitativa.
Si è evidenziato, quindi, come gli strumenti navali predisposti non siano allineati ai probabili impieghi operativi; difatti, partendo dalla classica teoria mahaniana della blue water la quale a sua volta si basa sullo studio delle modalità di estrinsecazione del potere marittimo nel corso della Storia, le principali marine militari asiatiche stanno procedendo ad immettere in servizio mezzi con capacità d’altura.
Purtroppo, mai come in questo caso sarebbe stato opportuno che dalla storia, oltre che la conoscenza delle teorie alternative, si fosse appreso che i risultati arrivano quando politica estera e dottrina d’impiego (e di qui procurement navale) vanno a braccetto. Cosa che solo entro certi limiti sembra avvenire in Estremo Oriente.
* Simone Vettore è Dottore in Storia Contemporanea (Università di Padova)
[1] E per l’esattezza la pubblicazione, nel 1890, del fondamentale The Influence of Sea Power upon History.
[2] Evidentemente in questo scenario la flotta francese non avrebbe potuto avventurarsi in alto mare ma avrebbe dovuto attendere quella avversaria che, in base alle teorie dell’epoca (ed alla concreta esperienza delle guerre napoleoniche), avrebbe dovuto esporsi per effettuare il blocco dei porti.
[3] Ciò ovviamente in linea di principio, che poi gli Ammiragli possano intestardirsi nelle loro dottrine d’impiego rendendole avulse da qualsiasi scenario operativo è un altro discorso.
[4] Per chi volesse approfondire si rinvia comunque alle ottime analisi di Andrea Tani, La corsa agli armamenti navali dell’Asia; Giovanni Martinelli, Le unità maggiori della Marina di Taiwan; Pier Paolo Ramoino, Una “piccola” bella marina: la Republic of Singapore Navy; Giuliano Da Frè, Sommergibili: corsa al riarmo in Asia. Parte I e Parte II
[5] L’India però ha in cantiere ben tre nuove portaerei: oltre alla Vikramaditya (ex sovietica Admiral Gorshkov), le due “indigene” Vikrant e Vishal.
[6] Air Independent Propulsion, ovvero propulsione indipendente dall’aria esterna; questo sistema garantisce navigazione subacquea per giorni anziché per ore, minor rumorosità, minor possibilità di essere scoperti, capacità di effettuare crociere più a largo raggio, etc.
[7] Hanno pertanto visto la luce (non senza problemi, a causa delle personalizzazioni spesso inserite in queste variante locali) le 6 fregate taiwanesi classe Kang Ding e le altrettante sorelle classe Formidable di Singapore.
[8] E qui si potrebbe disquisire all’infinito se l’air power sia alternativo o complementare al sea power.
[9] Che si sia perso un po’ il senso della misura lo si evince dalla visionpresente nero su bianco sul sito ufficiale della marina di Taiwan (ROC Navy); in essa si dichiara infatti che l’obiettivo è «to control and prevent the enemy from exploiting our territorial waters, defeat the enemy’s invasions, and ensure the security of sea lines of communication and freedom of movement». È evidente che tali propositi di sea patrol in luogo di un ben più realizzabile sea denialsono non solo fuori portata ma persino controproducenti considerando che la probabile tattica d’attacco cinese, prevedendo una saturazione degli obiettivi a suon di missili ed attacchi aerei, consiglierebbe di “parcellizzare” il proprio potenziale navale come fatto ad esempio dalla Corea del Nord, che schiera decine di sottomarini tascabili ed imbarcazioni veloci (dottrina d’impiego simile, per inciso, al famoso “pulviscolo navale” dei pasdaran iraniani).
[10] È anche stato osservato che molte rotte sono unidirezionali e dal tragitto più breve di quanto ci si potrebbe aspettare; è stata invece confermata l’importanza, a livello globale, di alcuni porti, canali e stretti. Vedi Pablo Kaluza, Andrea Kolzsch, Michael T. Gastner, Bernd Blasius, The complex network of global cargo ship movements, in Journal of the Royal Society Interface, n. 7/2010, pp. 1093-1103.
[11] Ad oggi sono stati provati in mare due dimostratori tecnologici realizzati uno ciascuno dai due consorzi in lizza (Lockheed Martin e General Dynamics) mentre altri due sono in fase di realizzazione; dopo questa nuova tornata di prove e valutazioni la U.S. Navy decreterà il vincitore. Finora le LCS si distinguono per la sagoma stealth e per lo scafo non convenzionale a trimarano. In particolare è tutto da verificare se il requisito della modularità, che sulla carta dovrebbe assicurare flessibilità e consistenti risparmi, saprà dimostrarsi valido anche in un contesto operativo.
[12] Vedi Littoral Combat Ship CLASS – LCS.
[13] I rapporti tra Cina e Vietnam, a lungo critici (si è già ricordato il conflitto del 1979), erano andati incontro ad una progressiva normalizzazione salvo tornare a farsi più conflittuali negli ultimi tempi, proprio per questioni di sfruttamento della pesca e per le isole contese; al contrario i rapporti con gli Stati Uniti si sono fatti sempre più cordiali.
[14] Per i moderni caccia / cacciabombardieri un’autonomia di 3 – 4.000 Km è la norma; con questo non si vuole negare che possedere una portaerei non rappresenti un plus, ma evidenziare per l’ennesima volta come quest’ultima rappresenti in molti casi un lusso al quale si potrebbe tranquillamente rinunciare.
[15] Questo comportamento stride con i toni distensivi adoperati nel recentissimo (aprile 2013) “Libro Bianco” cinese; nella prefazione si afferma infatti che «in today’s world, peace and development are facing new opportunities and challenges. It is a historic mission entrusted by the era to people of all nations to firmly grasp the opportunities, jointly meet the challenges, cooperatively maintain security and collectively achieve development»; per la sua importanza si riporta anche il passaggio nel quale si afferma a chiare lettere che Pechino ambisce a diventare una Potenza marittima: «China is a major maritime as well as land country. The seas and oceans provide immense space and abundant resources for China’s sustainable development, and thus are of vital importance to the people’s wellbeing and China’s future. It is an essential national development strategy to exploit, utilize and protect the seas and oceans, and build China into a maritime power. It is an important duty for the PLA to resolutely safeguard China’s maritime rights and interests». Vedi The Diversified Employment of China’s Armed Forces.
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