Francesco Margani, NELL’ADDIO GERMOGLIA LA TERRA, Edizioni Forme Libere, 2014
Prefazione di Davide Rondoni
Sorge il sospetto che, nei poeti che descrivono la natura, il sommovimento che questo gesto provoca nella parola, piuttosto che un’asettica descrizione degli accadimenti, si possa osservare, specchiata, l’immagine del primo Orfeo (sapendo, come premessa, che Orfeo è doppio, nel prima e nel dopo la morte di Euridice).
Doppio come tutte le altre figure che gli assomigliano – per esempio Narciso – sospese nel baratro della conoscenza del mondo e del dolore.
Questa identificazione avviene automaticamente, naturalmente, senza maschere culturali ma solo per richiamo, per appartenenza alla specie.
E Orfeo, in fondo, non è che l’immagine del primo sciamano e delle sue giaculatorie per evocare gli spiriti, per catturarli nella forma della lingua e del canto.
Questa impressione mi giunge prepotente leggendo il primo testo di questo libro.
Oltrepassa il confine, sorgi nell’oscurità
invadi il silenzio del mio esilio, accellera
il delirio, spingimi alla fuga, trascinami
nel torrente sarò molecola, ape ronzante
che precipita negli oracoli delle corolle,
parole offerte con tremula voce le tue.
Foglie incensano i marciapiedi,
città abbandonata nel riverbero dei canali,
acqua di fonte benedetta
innalza allo splendore i ruderi
avvitati nell’argilla erosa,
caratteri cuneiformi strappati alla memoria.
Cerco riparo tra le sue braccia
prima che si affacci il giorno.
p. 17
Avvertibile è il canto, il trasporto, le assonanze. E quindi la perdita. La Voce conduce ma, appunto, nella malinconia del rischio, della strada senza ritorno.
Delicato l’alito nato dalla tua bocca
odorosa di salvia e rosmarino,
brillano gli occhi verdi,
mi aspetti con ansia, allo specchio
calcoli la lunghezza delle rughe.
Trenini vanno e vengono senza sosta,
semafori galleggianti nei gas.
Nuvole stanche si allungano sulle villette liberty.
Gatti si muovono tra la siepe e il cielo murato.
Arginiamo la notte dirompente,
avviamoci per rinascere nel nettare
palpitante della lingua,
tu sai lo stordimento che confonde
come la prima volta tra i filari del granoturco.
p.19
Nella seconda sezione, invece, appare ancora il volto umbratile e a volte funereo di questa poesia, un duplice volto che coerentemente si situa nell’esperienza del doppio regno, delle forme sontuose e delle forme che deperiscono.
L’aspetto alessandrino del turgore e della sensualità, persino nella descrizione di piccole situazioni di intimità, desideri, ha la sua controparte nella resa, nella dipartita dei corpi verso il regno dei morti.
Attraverso i sentieri dei melograni
rinuncio alla ricerca delle tue carezze.
Le geometrie del tuo corpo evaporano,
cancellano le tracce delle risate.
Dimmi qualcosa nell’intreccio delle vene,
le briciole sparse sul pavimento
segnano la mappa del tuo vagare,
le foto impolverate sostano sui muri
le parole si sfibrano sulle labbra
p. 24
È dolce la luna
come una rosa gialla
sbocciata dal mare.
Nella tinozza si prolunga
l’incendio dei corpi.
p. 35
Nel pianto ho riconosciuto
il volto di mio nonno.
Vieni dal fondo,
raccontami ancora le gesta,
rivieni con passo danzante
avvolto nel plaid
inverno annebbiato dal toscano.
p. 49
Queste poesie, insomma, mi sembra si possano collocare in un doppio appartenere: alle stratificazioni antropologiche dell’essere umore e mente, partenza e ritorno, separazione e congiungimento. Neve e lava.
Lungo i viali etnei si spazza cenere e lapilli.
Aspettiamo assopiti la neve
o la prossima eruzione.
p. 50
Ma anche Nord e Sud, sostrati della propria terra e viaggi verso I lidi di terre più umbratili, più razionali.
Sicilianissimo pur nella misura quasi lombarda della costruzione stilistica, il Margani lettore certo dei maggiori milanesi, provvede a darci sempre un catalogo naturale delal sua terra. (Davide Rondoni nella prefazione)