Marco Ercolani è senza dubbio uno dei nostri critici e narratori più importanti. Assai vasta la sua produzione. Lo testimonio qui, recensendo i suoi ultimi libri e qualche libro precedente di cui mi sono già occupato.
Lorenzo Pittaluga, SONO LA FOCE E LA SORGENTE, Antologia poetica 1984-1995, Italic 2015, a cura di Marco Ercolani
Se è vero quanto afferma Chiara Daino in una testimonianza pubblicata in questo volume, e cioè che l’opera di un autore non è né la sua follia né il suo suicidio, è anche vero che è possibile rintracciare in un’opera, considerata nella sua interezza, tracce di un’ossessione e, in contrasto, ciò che le si oppone per resistenza, per tensione creativa.
È nell’arco di questi opposti che si situa la parola, a volte pericolosamente affacciata sul bordo dell’abisso che l’ha generata, altre volte slanciata come una fanciulla dai seni alti verso un’idealità, un’utopia.
Questa antologia dell’opera di Lorenzo Pittaluga, dunque, non va letta come lunga preparazione di un compimento, ma come organismo che in sè contiene una forma di premonizione del desiderio, guadando velocemente le occasioni che la vita presenta alla poesia per conchiuderla e, forse, completarsi in essa. Ma anche perché la vita possa riconoscere nella parola il senso di un districarsi, di un darsi, semplicemente, alla completezza dell’esperienza:
Sta dormendo senza assillo
il fanciullo che ancora avrà
un giorno e un altro ancora
ignaro del tormento vissuto.
Leggiamo così, nei testi fino a Poesie del primo giorno, 1994, come una preparazione all’ascesa, una fitta serie di forme e di immagini interpretabili come un veni, un moto da luogo; anche in un clima di biancore formale, di innocenza …
L’alba mi redime. Il Dio
iroso erompe sul mio volto:
è fulgido, mirabilmente assente.
Assunta questa dichiarazione come un atto di poetica, ne consegue, ma anche nelle forme ironiche delle prose di Arcobaleni tesi come redini, la descrizione di un irrompere – il pesce si ributtò nel mare oscuro – la levitazione, fino alla sparizione, di un Cristo, preceduto dallo squarciarsi del cielo notturno in un grido possente:
E il cielo notturno si squarciò in un grido possente, un tuono lacerante scardinò le tenebre, ci fece tremare; vedemmo scendere svolazzando una cosa scura con i contorni ben delineati, fosforescenti…
Leggiamo del suono duro delle cetre nella polvere precipitato:
in un sussurro
impercettibile sussurro
dove le più tenere voci languiscono (cetre?)
al suono –
duro –
nella polvere
precipitato.
Sei uscito dall’occhio
buio che non scorse viso –
ti leggi dentro
(…)
Adesso segui l’impercettibile
disegno.
Sembrano confuse le parole…
dove soffoco il nome
e ne consegno l’emblema
(…)
a sottoterra non risalgo
e più dubito della tua piuma
Siamo, come si vede, nella sfera semantica del discendere, del precipitare persino, “Scenderà dalla parola: è più vera della pagina che cancelli”.
Questo moto d/a luogo, come dicevo, é comunque un andare e venire, uno smuoversi; riconosce la vita come luogo del sensuale e dell’erotico. Poi, esplicitamente, in due testi successivi:
“Cresci. Il tuo capitolo è appena / una pronuncia in espansione: / è approssimato / venire verso”; “ Starà – la bella dama / che non conosci e pure / ti sorveglia vicino nel vigore / del giorno epifanico”.
Queste tensioni, dunque, non sono dirette entro una stessa direzione, quella di una negazione preclusa, di una sconfitta nella vita e nella parola. Anzi, la parola, come deve essere, è progetto, tende a farsi opera, vigore della forma. Piuttosto, mi sembra, si legge di una tenzone tra il frammento ermetico, compatto – vedasi le poesie inedite di La musa che resta – e l’ermeneutica dell’accadere di Nozione della notte, in particolare nel gruppo di testi, bellissimi, La vera conquista, Dormiveglia, Nozione della notte; ma anche in un testo, seppur ironico, “Perché, per fare una poesia”…
Il ragionamento è filtrato, insomma, attraverso il dispositivo delle dichiarazioni di poetica – ne esistono parecchie in questo libro – e del tratto esistenziale che prende atto della solitudine e la erge a musa, seppure non sempre ben accolta.
Scostàti dal coro
Ora noi non abbiamo che noi – dobbiamo
scontare l’intrico di finitezze e mesti
orgogli: l’infinità non ci cerca:
siamo cantori stonati – senza
più sonore viole – scostàti dal coro.
Il poeta è altrove, ma, questa, del resto, è sempre la condizione del poeta…
io sono altrove.
Esistere ben oltre
la tua fede, quando
risorge la febbre
Il poeta è consapevole, piuttosto, che l’altro mondo nulla insegna:
Che di la scopri?
Strane parole, specie
in estinzione, estensione
di vocali, scritture anonime
È quindi più maturo, mi sembra, l’esito di una maggior coscienza e onestà del vivere:
Ritrovare nell’aldiqua un bene perbene:
piangendo, rimpiangendo il casto ieri
dichiarazione che non esaurisce per niente il contrasto di cui abbiamo parlato all’inizio ma che ha senso all’interno della tenzone tra frammento e compiutezza, forma guasta e forma lievitata.
Il congedo sarà dolce e lieve –
sangue avremo versato ma il tuo canto…
*
L’oltraggio della rosa a te donata.
Ma io non dono rose…
Non sciolgo I filoni delle stelle
in uve dolci (vaghe tutte in un sé).
Io bevo il gesto, frantumo
l’esile ordito della familiarità.
Sono asceta e sono angelo
delle tue provvisorie voglie.
Mi rinchiudo poi, solo, nella stanza
buia e compio il tempo.
Il delirio, la sua virulenza di bestia
ctonia e fra i diversi amori un muro
*
La lira creativa radioattiva
Lascio.
Lascio a te la lira
creativa
radioattiva
quel che mi rimane.
Risieda
fra le tue membra
fresche.
Perdona il fardello di un presunto
perdente e d’un certo e sicuro
perduto.
Fuggo da un mondo distante
dal pubblico pagante,
dal mio corpo volante.
Fiaccola nella tenebra
celebra l’inchiostro.
La lirica creativa radioattiva è un congedo a tutti gli effetti, ci riporta all’atipica cetra del 1989, in cui, incantevoli stracci di amori sono appesi alle corde, amori perduti, e in cui un suono, forse proprio il canto, la poesia, è precipitato nella polvere.
È il clima d’asilo degli esuli, degli sconfitti. Non dissimile, dunque, il finale, a dirci che una conclusione è già avvertita, fin dall’inizio, nella parola, nella sua impossibilità a coagularsi.
Ché, in fondo, la descrizione concentrata di un’epopea, è già rintracciabile, nei suoi esiti più importanti, in un gruppo di testi presenti in L’indulgenza, e che farei precedere dal bellissimo Prendimi per mano, dove il non ripetere l’errore dei padri, è forse coltello a doppia lama che segna un compito di inaudita veggenza o follia…
Prendimi per mano
Prendimi per mano, conducimi
verso la lentezza, segna i confini
del mio viso e l’attraverserà la luce
dove vive l’uccello non classificato.
Prendimi per mano, diventa la guida del ragazzo
che non ripeterà l’errore dei padri e dritto
agli occhi lanciami il tuo nome.
Prendimi per mano, se esiste
un regno vi entreremo a coda
bassa e apparirà l’ospite:
abbiamo avuto l’onore delle armi.
Prendimi per mano, taglieremo
le teste agli usurpatori, l’usuraio
che ci prestò la primavera è già scomparso,
sogneremo: e la lettera perduta sarà.
Sebastiano Aglieco