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Riassunti: Marco Ercolani (3)

Da Narcyso

Marco Ercolani e Lucetta Frisa, IL MURO DOVE VOLANO GLI UCCELLI, L’Arcolaio 2013

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Questo libro si apre con una impressione dello sguardo che vede sfrecciare degli uccelli sul muro di fronte. Gli “occhi, rapiti, seguono circolarmente le loro ombre chiassose. (…) La pietra si è come sostituita al cielo, riflette forme che appaiono e scompaiono in un riflesso fulmineo. Il tempo di un rapido appunto sul foglio”.

Siamo a Noto, e dunque nella luce che, dentro i chiaroscuri del barocco, costruisce e demolisce forme. Siamo nel regno del demone meridiano, in quella forma di follia creativa che è sicuramente uno dei temi che Marco Ercolani ha più indagato.

Subito dopo, ecco le pitture della grotta di Chauvet, in Francia, dove i chiaroscuri di una luce più sinistra ci mostrano la mano di un individuo, forse segregato per qualche crimine o malattia o forma di follia, che si mette a dipingere; “Anche l’arte rupestre”, esclamano Marco Ercolani e Lucetta Frisa, “sarebbe così l’opera di un artista emarginato e solo”.

E dunque ecco delineato il tema dell’arte come espressione di follia. Vengono convocati in questo libro, gli artisti già indagati da Ercolani in precedenti scritti: Michaux, Artaud, Walser…In questo caso in rapporto al tema più specifico che imparenta segno grafico, calligrafia, ideogramma e scrittura vera e propria, fino ad approdare, nella seconda parte del libro, alla descrizione di una quadreria in cui si avverte il tentativo di “dispercepire” l’opera, cioè di decostruirne la struttura, il progetto, e ricondurla invece a “una pennellata di fuoco”, a quel gesto primordiale dell’artista di Chauvet che, mediante il gesto intensivo del lasciare traccia, imparentava realtà e sogno.

Studi recenti, del resto, tendono a dimostrare che l’arte realistica delle pitture rupestri non sarebbe mediata da copie dal vero, ma da animali apparsi nella realtà dissociata dello sciamano; sarebbero, dunque, questi primitivi modelli, copie di copie, il che dimostrerebbe la sensatezza del ragionamento platonico intorno al mito della caverna.

Nelle esperienze di massima dissociazione, per esempio in Michaux, il disegno rabdomantico, stenografato, coinciderebbe dunque con l’urgenza del gesto abrupto del bambino, col segno “disociale” dello scarabocchio appuntato ai margini del taccuino, del progetto in bozze della grande opera ancora non realizzata; col contorno, dunque, e con la periferia, dove ancora abitano le forze primordiali dell’ispirazione.

“Il disegno, lo schizzo, l’appunto, ci mostrano un artista nudo, che ha deposto quasi tutte le sue maschere, e cerca di catturare i primi segnali di un’opera a venire”.

È proprio in questa tensione verso l’irrealizzato, all’ancora possibile o al mai partorito che Marco Ercolani e Lucetta Frisa analizzano le operazioni di alcuni dei più grandi pittori del ventesimo secolo, girando in tondo al tema di un’arte “vera”, e cioè bardata del minimo armamentario contro i riti del sociale, esposta, vis a vis.

Bellissimo, appunto, il tema del viso e del volto, nel rapporto tra superficie dell’apparenza – visione – e realtà di “ciò che trapela come enigma” – volto –

La cancellazione del viso umano nella pittura del novecento, segnerebbe secondo Masson “l’assenza di un’arte tragica, (…) un caos che può fare a meno della presenza dell’uomo”.

E ancora, secondo Artaud: “È assurdo rimproverare di essere accademico a un pittore che si ostini ancora a riprodurre i tratti del volto umano così come sono; poiché così come sono, non hanno ancora trovato la forma che indicano e designano. (…); ciò significa che il volto umano non ha ancora trovato la sua faccia e che sta al pittore dargliela”.

La sparizione della forma, dunque, a partire dal nostro viso, è un segnale essenziale, nella pittura del novecento, per comprendere la tensione spirituale e intellettuale di artisti che a volte si sono ostinati ad abitare per tutta la vita, la terra di passaggio della follia, della rinuncia o dell’isolamento. Si veda, a proposito della rinuncia, il gesto del lasciarsi andare, del “buttarsi giù” del poeta Lorenzo Pittaluga; oppure, ma forse per altri motivi, il lasciarsi sprofondare nella neve dello scrittore Walser.

Dietro le forme larvate delle sculture di Giacometti, c’è “la testimonianza spaventata di un’apparizione”; un volto che, a furia di decorticarsi e scancellarsi, vorrebbe andare oltre la psicologia, approdare alla natura di un “idolo che ci guida verso l’aldilà, consentendoci di accedere serenamente al regno dei morti”.

L’arte è dunque infinita e inappagata: “tavolo, piatto, albero, montagna, sono tracciati con folle ostinazione fino ad addensare una realtà vicinissima ma inarrivabile. Allo stesso modo un bambino ripete il nome di una cosa senza poterla ottenere ma continuando a desiderarla, e il suo desiderio non ha fine”.

Ecco dunque sempre l’origine, la domanda dell’inizio, il segno che ancora non si è fatto scrittura ma è rimasto nella forma di parola muta, interrogante. Così scrive, infatti, Giacometti:”Disegni nelle caverne, caverne, caverne, caverne. Là, e soltanto là, il movimento è riuscito. Capire perché, scoprirne la possibilità, ma ne dubito”.

Sebastiano Aglieco


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