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Riassunti: Paolo Fabrizio Iacuzzi, parte terza

Da Narcyso

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In Rosso degli affetti, il campo sembra restringersi ulteriormente all’urgenza di una campitura, e cioè il rosso, appunto, nella sua doppia accezione di linfa vitale e di resa. Sono larghissime le chiazze in cui si muovono le persone: il tappeto rosso della Feltrinelli, il telo rosso steso sulla spiaggia, il maglione rosso fatto dalla mamma, il cavallino rosso, la scatola rossa di Frida Kahlo, l’armata rossa di Malevich, i semi rossi vicino alla magnolia dai fiori bianchi, la polo rossa su cui si sdraiava la gatta Evita, “l’esercito in terra rossa di un antico re cinese in marcia”.

La premonizione di un male di vivere, passato attraverso i filtri letterari del decadentismo e poi dell’esistenzialismo, qui si realizza, senza metafore e accorgimenti, nel male della malattia che rode la vita; perché il mondo è inquinato dei nostri personali errori e di quelli di una storia che ci è stata consegnata per eredità, inconsapevoli, senza che noi lo desiderassimo o lo chiedessimo.

È risolto definitivamente il discorso sui tributi generazionali. Nonni, padri, figli, sembrano essere tutti accomunati dalla stessa sorte di essere padri e figli nello stesso tempo; ogni deleterio discorso generazionale finisce per rovinare in un tempo che è diventato sempre più stretto, che avvicina le memorie fino a farle coincidere, senza più medaglie di saggezza appuntate al petto, senza più maestri e allievi, tutti dentro inesorabilmente questo mal di vivere che è la nostra casa. Come se non potessimo più dire da dove veniamo, come se non potessimo più riedificare con la memoria il nostro albero cronologico perché il passato si è ridotto a moncone vicinissimo, a ombra del nostro presente, fattosi, esso stesso, storia del mondo e di noi:”Tutto ci confonde la memoria. / Siamo nell’Aldilà / della stessa età. / Figli dei padri. Padri dei nonni. Tutti / nonni dei figli. Siamo uno soltanto”, p. 35.

Perché il maestro, dopo la strage di Beslàn, non può che insegnare a una classe vuota. Perché la maschera più struggente che in questo libro indossa l’io, è forse proprio quella del maestro che avrebbe voluto essere, e non per trasmettere un’immagine di sé ai posteri, una forma di sopravvivenza nei comportamenti, nelle parole, ma per giocare alla vita provando a non ripetere gli errori dei padri e delle madri: “Dove eravate madri quando cademmo nel male? / Senza potervi mai dire Stiamo tanto tanto male / da non sentire più due mani e due piedi?”, p. 38. “Dove / / eravate? Nei profumi di Guerlain o nelle creme / di Helena Rubinstein”, p. 39. “Fra i santi e i morti con quale mascara possiamo ora / evidenziare gli occhi? Emergere fuori dalle orbite. / Per dire come guardiamo ora che siamo stati colpiti / dal male”, p. 42. Per dire: “Siamo intolleranti / per i bambini a pranzo sulla spiaggia. Senza dormire ancora / o andare a letto. Se mai tenessimo insieme i nostri figli / sapremmo come educarli. Ma solo tu potresti insegnare // il dono dell’amore”, p. 52.

Così, leggendo questo libro, impossibile è non avvertire un senso di allerta e di apprensione, perché è come se la biografia di Paolo Fabrizio Iacuzzi appartenesse un po’ a tutti, e cioè a un tempo che sembra aver fatto tabula rasa di un passato e di un futuro, ergendosi esso stesso come vessillo bruciante di una resa totale, di una fraternità da costruire ora o mai più.

Nulla può, dunque, la parola; non è farmaco, né speranza, è solo monumento a se stessa, al proprio splendore necessario, perché la vita è molto di più della parola, e, al massimo, “il canto se viene è bene”, p. 90.

La parola, però, può essere forte per se stessa, essere “autobioenergia”, atlante descrittivo per la persona e la specie. Nomenclatura dei mali, delle rese, delle sconfitte, ma anche delle possibili zone sacre, o sacrileghe, riservate a un dio. Terra in cui tracciare personali percorsi di conoscenza, ma anche di perdizione, e questo può avvenire leggendo la poesia come forma di testimonianza, di resa alla vita e alla sua speranza amara di esserci comunque. Noi, infine trasformati in cantori di un al di là che può contemplare la vita solo bloccandola nell’istante assoluto della nostra rappresentazione: “Se fossimo i due canopi. Fra il rosso e il nero delle terracotte. / Perché pensano i vasi con figure. Il cratere Francois / spaccato e più volte ricostruito. Dove le grande storie girano / con figure nere dentro il mito. Contenere tutta la nostra // vita diventata cenere dopo il fuoco. Anche in questo modo / sapere di esistere appena sulla soglia della polvere”.

Il rosso della vita contrapposto al nero del lutto, o al giallo dei girasoli; ma anche il lutto sembra non finire, gira vorticosamente su se stesso, “Non possiamo più librarci / nella morte. Solo navigare in un recinto”.

La morte, dunque, è qui, già nel tempo e nel piccolo spazio che abitiamo e forse la vera liberazione consisterebbe nel saperla accogliere nel realismo, banalissimo, di un presente in cui compiamo gesti semplici, in cui il nostro splendore sono i riti del quotidiano, dell’andarcene a passo lento come si sfanno serenamente tutte le cose della vita animale e minerale.

Chiusi ad angolo nella stanza i nostri sguardi non s’incrociano. / Per sempre siamo ritratti in bianco e nero. Nati in camposanto / dei vivi col sorriso dei bambini”.

Infine, così si conclude il libro, padre e figlio abitano un girotondo, “sul fondo oro dei girasoli”. Nella guerra della vita, l’unico superstite è il nostro nome, “Tu vivi ancora / nel figlio in arrivo”.

Sebastiano Aglieco


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