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L’Italia ha bisogno, urgentemente e necessariamente, di una ribellione morale.
Gli spiriti più elevati debbono essere capaci di promuoverla, partendo da un senso di vera e propria indignazione che va sollevata cercando di avviare, nel contempo, una profonda riflessione politica.
Questo Paese, negli ultimi trent’anni, è stato governato male: ma non solo, i suoi cittadini, la stragrande maggioranza dei cittadini onesti che lavorano, studiano, tirano avanti (lo affermo con tranquillità: senza nessuna tema di cadere nella retorica populista che appartiene, purtroppo, a ben altre sponde) sono stati maltrattati, angariati, vilipesi.
A suffragare quest’affermazione basterebbero le cifre uscite fuori in questi giorni da diverse fonti : e non si tratta di statistica-spettacolo come qualcuno ha cercato di insinuare.
Si tratta delle grandi cifre della diseguaglianza sul piano fiscale e della ricchezza, dei numeri della disoccupazione, delle tante tragedie, vere e proprie tragedie, che ci arrivano soprattutto dal mondo del lavoro, ma non solo.
Qualcosa non quadra davvero in questo Paese, al di là delle considerazioni di carattere generale sulla crisi, i risvolti internazionali e quant’altro: un Paese dove un autogol in una partita di terz’ordine vale quanto il costo di un appartamento che una famiglia suda con vent’anni di mutuo sulle spalle; un Paese nel quale dalle fontane della “politica” (certo è difficile definire con questa terminologia classica, un certo tipo di attività che viene svolta, adesso come adesso, nelle istituzioni e nei partiti) sgorgano fiumi di denaro che non hanno origine e non sono vincolati ad alcuna forma di produzione intellettuale e i cui flussi, di conseguenza, sono dirottati per gli usi più svariati di vantaggio personale e di clan, al di fuori da qualsivoglia riscontro o controllo pubblico.
L’appropriazione dei fondi del finanziamento pubblico ai partiti (o rimborsi elettorali, come li si voglia chiamare) appare essere la nuova frontiera della “questione morale”, ben al di là delle antiche tangenti su lavori pubblici, appalti, progetti.
La responsabilità beninteso è di tutti: una riflessione di fondo, ad esempio, sul “caso Lusi” che appare, in questo senso, davvero la “madre di tutte le battaglie” non è stata ancora proposta da alcuno. Anche perché, nel sistema del “partito di cartello” che regge il quadro politico italiano, le situazioni da spiegare ci sono per tutti.
Non mi inoltro, ovviamente, nel caso “Lega Nord” che, dai prodromi, potrebbe anche risultare analogo a quello “storico” del “mariuolo” Mario Chiesa, ma con esiti ancora più devastanti per il sistema politico.
L’Italia è stata governata male, seguendo mode improvvisate e mai analizzate politicamente a fondo con il concorso dei cittadini: si pensi alle modifiche elettorali basate sulla personalizzazione, si pensi alla vera e propria “bufala” del federalismo, si pensi alle varie idee sulla semplificazione dell’amministrazione pubblica risoltesi in buona parte in clamorosi pasticci e , comunque, in un ulteriore distacco tra i cittadini e la cosa pubblica.
Nel frattempo la Costituzione è stata violata sistematicamente anche da parte di chi dovrebbe essene il tenace custode: al punto in cui è emersa una sorta di “Costituzione materiale” affatto diversa da quella formale in vigore. Una “Costituzione materiale” dalla quale si pretende, addirittura, di trarre le indicazioni per modifiche dell’“agire politico” intese nel senso di una restrizione dei meccanismi democratici.
Il risultato di questo lungo processo di degrado, che qui ho cercato di riassumere in poche battute, ma che meriterebbe una ben più ampia e articolata analisi è stato quella della formazione di un governo di destra, ferocemente antipopolare che, senza fornire alcuna spiegazione sulla realtà economica e sociale, legge la situazione italiana nel modo più classicamente padronale, in un’ideologica visione di classe di stampo non solo novecentesco ma addirittura ottocentesco, che sta assumendo vesti, chiaramente anticostituzionali, da “Protettorato” in una sorta di diarchia: una situazione anch’essa dagli esiti imprevedibili per la nostra democrazia, potenzialmente foriera di soluzioni plebiscitarie.
Basta guardarsi attorno per capire: verificare la situazione dell’industria, dei servizi, del territorio; l’ignavia se non l’amoralità dei governanti a tutti i livelli, centrale e periferico.
Non vale affermare che la “politica” i suoi esponenti sono lo “specchio del Paese” anche dal punto di vista della qualità morale: non vale perché, nel corso degli anni, è stato costruito (anche sulla base di una sorta di indifferenza collettiva, ben alimentata anche sul piano mediatico) proprio quel “cartello” da parte di un ceto il cui unico scopo è stato quello di impedire ad altri di affermarsi, di entrare nel cerchio, di scendere produttivamente nell’arena: anzi, scientemente, sono state allontanate quelle forze, quei soggetti, che avrebbero potuto rappresentare punti di riferimento in controtendenza.
Non esistono, in questo momento, soggetti cui rivolgersi, se non, parzialmente, ad alcuni settori del mondo sindacale e di movimento, ai quali non si può chiedere però di oltrepassare la loro dimensione storica.
Senza una vasta “Ribellione Morale” (cosa ben diversa dagli “indignados di strada”) non ci sarà prospettiva: penso alla ripresa di un pensiero critico capace di fissare orizzonti ben più avanzati di quelli della semplice fuoriuscita dalla crisi, a un lavoro insieme intellettuale e politico, a un coinvolgimento di massa attorno ad un grande dibattito sulle idee necessarie per il cambiamento.
Serve una nuova Resistenza, altro termine davvero non mi viene in mente.
Genova, li 4 aprile 2012 Franco Astengo
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