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Riccardo Marchi

Creato il 20 dicembre 2012 da Patrizia Poli @tartina

8a376daf7badcb2fd24ec6ba7e5384a9image158x220da Livorno Magazine

di Patrizia Poli

Riccardo Marchi (1897 – 1992) è davvero un personaggio dimenticato nel panorama letterario italiano, cercando in rete si trova pochissimo su di lui, addirittura, digitando il suo nome sui principali motori di ricerca, ci siamo imbattuti, fra i primi risultati, nella nostra stessa citazione sulla pagina Facebook di Livorno Magazine. Eppure, Riccardo Marchi è stato paragonato dalla critica a Tozzi, a Verga e a Capuana, per il realismo della descrizione e per il suo essere studioso del folclore e delle tradizioni livornesi.

Telegrafista nella prima guerra mondiale, gestì con successo la fabbrica di sapone del padre, portando avanti, contemporaneamente, l’attività di giornalista, di scrittore e di attivista politico. Nel 1921 partecipò al convegno socialista che vide la nascita del partito comunista.

Oltre ai versi e a numerosi romanzi, molti dei quali di stampo rievocativo e genericamente autobiografico, ottenne anche un discreto successo via etere come autore di radiodrammi e radio fiabe. Divenne membro, insieme a Corrado Alvaro, di una autorevole commissione dell’E.I.A.R. Nel secondo dopoguerra si dedicò alla cronaca e critica cinematografica per “IL Telegrafo” e “Il Tirreno”.

Sul finire degli anni sessanta si ritirò a vita privata a Livorno, dedicandosi esclusivamente alla scrittura. Morì nel 1992.

I suoi romanzi più conosciuti sono: “Circo Equestre”, “Lo sperduto di Lugh” ma, soprattutto, “Via Eugenia, 1900”, dove rievoca la vita della sua famiglia, la fabbrica del sapone, la figura di Zio Tide, galantuomo d’altri tempi.

Un galantuomo! Vallo a cercare al giorno d’oggi. Zio Tide lo fu? Sicuramente lo fu.

Il discorso mi riporta necessariamente alla memoria di lui, di zio Tide, abbreviativo di Aristide, fratello di mia madre, esempio di galantomismo non gratuito o di poco costo, pagato anzi a caro prezzo.

Com’era nel fisico? Aitante con un volto bruno come scavato sulla scorza di un vecchio albero. Di apparenza burbero; in realtà bonario, rivelato nell’intimo da un non frequente sorriso che, schiarendolo, gli animava assieme allo sguardo, i cespugli arruffati degli scopettoni e i baffi da quarantottino. “ (pag.7)

Marchi aveva “il tratto dell’incisore”, come si afferma nella prefazione a cura dell’editrice Nuova Fortezza, e sapeva rendere le strade di Livorno con animata vivacità:

“E la strada della fanciullezza com’era?
Pressappoco come oggi, più decorosa, più Eugenia, da un Eugenio magistrato civico. Allora, nonostante la saponeria e la fonderia limitrofa al termine di quel tratto di strada, nonostante qualche stallatico e due o tre botteghe di artigiani ed una modesta canova, nei sedici edifici che la compongono, fra i quali due palazzine padronali, via Eugenia ospitava con signorile dignità impiegati, artigiani e Liberi Imprenditori come noi.
Ora è trasandata, decaduta, coi muri scrostati e fioriti di erbacce, butterati dalle guerre; ma ai tempi di zio Tide, come garriva! Di panni al sole, di voci attestanti una vitalità calda; perfino di ricchezza.
La ravvivava dall’alba al tramonto, il cantare degli ambulanti: le erbaiole, l’arsellaio, il pesciaiolo, il pollaiolo, l’ombrellaio, l’arrotino, il ramaio di Prato, un cenciaio e così via dicendo. Polifonia alla quale, per solleticare il buon cuore, si univano le tiritere degli organetti. A questi Tide faceva l’elemosina di un soldo purché se ne andassero altrove a infastidire con “La vergine degli angeli” o “La donna è mobile”. Tornassero, magari, col repertorio nuovo e lo strumento accordato.”
(pag. 19)

Via Eugenia 1900” è una finestra sul nostro passato, sulla Livorno appena uscita dal Risorgimento. Ci viene in mente l’angolo nascosto del cimitero dei Lupi con le tombe garibaldine crepate, inselvatichite, ed è spontaneo associarle – e confrontarle – con certe descrizioni del Marchi:

Ah, tempi gagliardi, bellissimi e feroci! Li ricordo ancora per i cortei, riti del popolo che se ne nutriva, come il pane. I funerali dei garibaldini cui partecipavo tenuto per mano dallo zio. Grande sfoggio di bandiere e camicie rosse; folla di severi uomini in nero, come lo zio: tutti quanti con una rappa di acacia all’occhiello.” (pag 41)


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