In tutti i Paesi occidentali dagli Usa fino alle propaggini sarmatiche dell’est europeo le disuguaglianze sono aumentate a dismisura: una grande percentuale di risorse si è spostata dal lavoro alla rendita mentre un sempre minor numero di persone detiene percentuali sempre più grandi delle ricchezze nazionali. Spesso il 10% della popolazione possiede ben oltre il 50% dei capitali e questa piccola minoranza paga sempre meno tasse e ne vuole pagare sempre meno. E’ stato un processo di depauperamento lungo una trentina d’anni, iniziato in sordina, anzi annunciato dalle trombe del liberismo che distribuivano facili aspettative individuali.
La crisi attuale ha le proprie radici proprio in questo processo di redistribuzione al contrario che man mano ha provocato un calo della domanda, il tentativo di supportarla con prestiti facili, una evasione dei sistemi produttivi dagli investimenti per cercare maggiori profitti delocalizzando grazie alla frettolosa globalizzazione degli schiavisti o convertendosi al gioco d’azzardo della finanza. E adesso che la frittata è fatta si cerca di rimediare trasferendo ancora maggiore ricchezza in poche mani depauperando gli stati di sovranità, il welfare di risorse e il lavoro di diritti. Un perseverare che è allo stesso tempo diabolico nelle sue intenzioni politiche e ottuso nelle scelte economiche. Non credo che ci sia bisogno di fare nomi per indicare coloro nelle quali le due caratteristiche coincidono.
Queste cose le vedono tutti e sono da parecchi anni tema di analisi, di dibattito e solo da pochissimi di lotta. Tuttavia ci sfugge il fatto che tutto questo non avrebbe dovuto prodursi alla luce della teoria economica neoclassica (di cui il liberismo costituisce la fazione estremista) secondo la quale la distribuzione del reddito tra salari e profitti è il frutto di un equilibrio naturale del mercato, determinato essenzialmente dalle scelte algebricamente aggregabili degli individui. Si è verificato invece un totale disequilibrio senza che da trent’anni a questa parte si sia manifestata una maggiore scarsità di risorse naturali, anch’esse del resto saccheggiate ed esposte al mercato. Ecco dunque che le recenti conversioni di economisti, ma anche le parole di ieri di Juncker (qui) vanno viste come un riconoscimento non di errori circoscritti o marginali, ma come una una messa in crisi del paradigma economico dominante. Questo sempre che quel naturale abbia una funzione euristica nella teoria e non sia invece l’architrave sul quale si costruisce una teoria oligarchica, autoritaria e di fatto medioevale della società umana.
Per la verità nell’estremismo liberista c’è questo elemento, con il piccolo particolare che in una società industriale, cioè di produzione massiva di beni e servizi si rivela priva di senso, è solo l’incubo di un ristretto pugno di tycoon reazionari che fanno i loro circoli, dicono cazzate e assoldano professori che diano una patina di scientificità a queste giornate di San Pietroburgo e giurino sulla suprema intelligenza delle idiozie. Ma al di là di questo mondo ignobile e patetico insieme, rimane la scoperta che il mercato è di per sé instabile e privo di equilibrio, esposto ai feedback positivi che ampliano enormemente gli effetti invece che compensarli. Ed è inutile servirsi di algoritmi e metodi statistici impostati proprio per restituire l’apparenza di un equilibrio di fondo del mercato che invece potrebbe essere il campo di applicazione ideale per la matematica delle catastrofi o delle divaricazioni: prima o poi la realtà si prende la rivincita.
Semmai il mercato può contenere le sue oscillazioni dentro un quadro politico che traduca in termini di evoluzione democratica, per così dire, i rapporti di classe, come riteneva Sraffa. Solo così la distribuzione delle risorse e in particolare quella tra retribuzione e capitale può essere mantenuta dentro limiti non distruttivi. Paradossalmente il verbo sparso per due decenni, quello di una politica subalterna alle necessità dell’economia, ripetuto fino alla noia e accettato dagli stessi politici, persino dalla sinistra moderata, si è rivelata alla fine una bufala: è la politica ad essere necessaria al funzionamento e alla stabilità dell’economia, come del resto si poteva desumere tranquillamente dalla lettura della crisi del ’29. Anzi non una bufala, ma una visione politica essa stessa che dentro il recinto di presunte leggi ineludibili e di rapporti “naturali” era portatrice di un disegno regressivo.
Adesso occorre misurare la capacità di riprendere un cammino interrotto, liberi dalle fascinazioni inoculate nella società, ma anche da quella stasi di elaborazione che ha ridotto e frazionato l’idea stessa di progresso umano e civile rendendola una vuota invocazione rituale di ambiguo riformismo dall’alto, come quello della pallacorda o una serie di orticelli urbani di varie e gelosissime ortodossie. In questa fase si deve e si può chiedere alla politica attiva di ristabilire le condizioni profonde di dibattito, un ambiente darwiniano delle idee, dove il frasario fatto, le menzogne arzigogolate su pubblico e privato, le ovvietà pavloviane, le arroganze aristoteliche prive di riscontri che diventano semplice menzogna, si debbano misurare con vere creature dell’intelligenza senza essere protette dai rifugi accademici e mediatici dentro i quali solo possono sopravvivere. E di certo sarebbe difficile chiederlo a chi è stato così condizionato da queste ideologie da averle fatte proprie, da gestirle ormai come un riflesso condizionato. O come subalternità necessaria.
L’unica cosa necessaria è l’umanità, nel suo senso concreto e non retorico. L’uguaglianza come punto di approdo, il sapere come mezzo. Tutto il resto è consumismo politico.