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Ricordando Pio La Torre

Da Matteobortolotti @bortolotti

E’ soltanto un frammento di un piccolo romanzo, ma dentro ci sono storie di persone come lui, persone straordinarie proprio perché le incontri tutti i giorni. Gente che resiste. Oggi voglio dedicare a lui e a tutti noi queste poche righe. Sono il mio minuscolo contributo. Il vero impegno è quello di non cedere mai alla mafiosità.

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Possiamo sempre fare qualcosa. E Pasquale lo fa. Senza bisogno di un ideale, senza un’utopia in tasca. Lo fa semplicemente per proteggere la sua famiglia da un sistema corrotto e ipocrita. Lo fa perché se lo sente dentro, che quella gente è marcia. Non lo fa per massimi sistemi, per tifare il suo partito del cuore, per trovarsi un lavoro o candidarsi a qualche carica pubblica. Lo fa per dignità, perché tiene la testa alta di fronte all’arroganza di chi usa la prepotenza come arma per prendersi la sua vita, non solo il suo lavoro, ma tutto. Persino l’anima.

L’incubo di Pasquale comincia così, e neanche se ne rende conto.

Il Malese si è impresso la sua faccia nelle testa e l’ha condannato, gliel’ha giurata, l’ha preso come un esempio sbagliato che va corretto da subito. Beppe D’Angelo ricorda ancora i tempi del campetto di don Palma e degli allenamenti con Marco Esposito. È proprio per questo che all’inizio cerca di proteggere il vecchio amico, ma quelli come D’Angelo non sanno nemmeno cosa sia l’amicizia. Se ne sono scordati col tempo passato tra le file di un’organizzazione che parla di lealtà per il capo, fino a quando qualcuno non lo pugnala e gli si sostituisce. È D’Angelo stesso, che dopo la condanna emessa dal Malese avverte il capo del cantiere in cui Pasquale fa il muratore. Gli dice che l’uomo non può più lavorare. E quando lo dice, non si riferisce a quel cantiere. Parla di tutta Castello. Pasquale perde il lavoro in un giorno di sole. E chissà per quanti altri è una bellissima giornata. Per lui invece, è la fine di un sogno piccolo piccolo.

Quello di avere la possibilità di mantenere la famiglia.

Ci prova, Pasquale. Fa di tutto e cerca di tutto, nei giorni successivi. Non c’è una porta che gli si apra davanti. Sono tutte sigillate, tutte chiuse a doppia mandata dalla chiave della paura. Con un figlio e una moglie a carico il giovane muratore non sa proprio che fare. È troppo orgoglioso per chiedere aiuto al giudice, troppo fiero per andarsene via dal suo paese.

Si rigira nel letto per notti intere e tiene sveglia anche sua moglie Maria.

«La risposta è sempre la stessa: per me non c’è lavoro», si lamenta. «Per me! Per gli altri sì, ma per me no!»

Sua moglie ha capito quello che sta succedendo, ma lui non vuole preoccuparla.

Le parla il meno possibile e lei minimizza, perché pensa che si possa risolvere tutto, perché cresciuta convivendo con quel sistema corrotto.

«Se è la camorra che ce l’ha con te», chiede candida durante una notte insonne. «Perché non chiedi aiuto a D’Angelo? Lui è uno di loro, potete sistemarvi… Chiedi cosa vuole in cambio…»

«No, i favori alla camorra io non ce li chiedo!», risponde lui, seccato.

«Ma allora come camperemo?»

«Non lo saccio, ma non camperemo camorristi».

Fare qualcosa, diceva Falcone. Eh, ma fare qualcosa costa caro. Si paga molto e s’incassa poco. Passano i giorni e Pasquale non sa come trovare i soldi perla spesa. L’hanno schiacciato in un angolo, l’hanno umiliato e ogni richiesta di lavoro continua a rimanere inascoltata.

Ha cominciato a bere, perché s’è stancato di vagare da un cantiere all’altro, ma si vergogna di tornare a casa e stare sul divano. Così ogni sera si ferma a farsi un goccio in paese. Forse è perché una sera ha bevuto troppo, o è la fame, la paura per suo figlio. Forse è proprio la paura che lo porta fino a casa di Beppe D’Angelo in un ultimo disperato tentativo.

Pasquale tradisce anche il suo orgoglio, quella sera.

«Ti volevano morto, Pasca’», gli dice bruscamente quello che una volta era un amico. «Un esempio hanno detto! Per far capire a tutti i guaglioni del paese che a schifare chi comanda si finisce sotto terra… mo’ hai capito? Io t’aggio già aiutato. Tu a Castello non ci puoi rimanere…»

D’Angelo gli consegna un mazzetto di banconote e poi lo caccia via, dicendo che non vuole più rivederlo.

Fare qualcosa ha un prezzo così alto che non si torna indietro. Non puoi chiedere che ti venga restituito quello che hai dato. E Pasquale sente che perderebbe anche quel poco che gli è rimasto se scappasse via, se usasse quei pochi soldi elemosinati per portare la sua famiglia al Nord.

È dura da accettare, la battaglia, difficile da sostenere, la guerra. Ci sono morti e feriti, c’è distruzione e carestia. E quando la guerra non te la sei scelta, ma te la fanno attorno solo perché tu sei così e non sei come gli altri, perché tu non pieghi la testa e non scappi, allora diventa impossibile resistere.

Pasquale quella notte cede alla bottiglia. Esagera, diventa molesto e lo cacciano dal bar, dai locali del paese in cui nessuno l’aveva mai visto bere così tanto.

Non c’è un castellano che si fermi per aiutarlo, per portarlo a casa. Eppure tutti lo riconoscono.

Nessuno gli tende la mano, perché lui è segnato, porta la lettera scarlatta addosso, quella del fetente che deve solo andarsene via. È diverso e perduto, perché un giorno si è rifiutato di brindare a un onorevole camorrista.

Si ritrova a urlare per le strade del centro storico di Castello, schifa i soldi che gli ha dato D’Angelo, li getta a terra una banconota alla volta e grida forte i nomi dei responsabili del suo fallimento.

«Io non vado via dalla mia casa, avete capito?», urla disperato. «Io non scappo! Siete delle merde e coi vostri soldi sporchi di sangue non mi compro la fuga! Siete delle merde camorriste! Avete capito? Russo! Capuano! D’Angelo! Siete delle merde!»

Lo dice così, perché è talmente ubriaco che la notte gli sembra un’amica a cui confidare i suoi pensieri più intimi. Solo che la notte di Castello ha mille orecchie, e anche se il giorno dopo Pasquale si sveglia deciso a trovare un lavoro e una casa lontani dal paese, per lui la sentenza è già stata emessa.

Perché nel regime della paura, basta una sola voce che esca dal coro, una soltanto e il morbo dilaga. Perché la paura più grande ce l’hanno quelli che vivono grazie a essa, ce l’ha la camorra quando sente qualcuno che le si oppone, che dice basta.

Tanto peggio se è qualcuno tra la gente, se non è un giudice, un carabiniere, se è soltanto un muratore come gli altri. Qualcuno che dovrebbe rimanere suddito silenzioso e invece alza la testa perché vuole qualcosa da loro, qualcosa che dice suo: la libertà. Ma la camorra la libertà la prende solo con la violenza, non capisce la potenza delle parole e delle schiene dritte. Non capisce, e proprio per questo ha ancora più paura.

da Il Clan dei Camorristi (FiveStore)


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