Quarant’anni fa, esattamente il 13 novembre 1974, si spegneva in un ospedale parigino in seguito all’aggravarsi di un intervento chirurgico per un tumore polmonare, il regista e attore Vittorio De Sica, tra i padri del neorealismo, vincitore di quattro premi Oscar, una Palma d’oro ed un Orso d’oro.
Elegante, di classe, poliedrico, giocatore incallito, autoironico, scanzonato, intuitivo, geniale. Vittorio De Sica (Sora, 7 luglio 1901 – Neuilly-sur-Seine, 13 novembre 1974), che sin da piccolo si dilettava nella recitazione e nel cantare canzoni napoletane, ancora oggi rimane un enigma nel panorama culturale italiano ed internazionale: nessuno come lui, in Italia, a parte Fellini, Rossellini, Visconti ed Antonioni ha lasciato un’eredità così grande ed importante, influenzando scuole, registi e autori. Da Kurosawa a Spielberg, da Chaplin ad Altman, il nome di De Sica ha condizionato e condiziona numerose pellicole straniere e ciò non sorprende se si pensa che un capolavori come Sciuscià e Ladri di biciclette, allo loro uscita, furono snobbati in Italia, mentre all’estero, specialmente in America conobbero un grandissimo successo sia di critica che di pubblico. Ma la leggenda di questo poeta del cinema è segnata da contraddizioni e da mille sfumature, come la sua vita; l’arte e la vita sembrano fondersi una con l’altra, all’insegna della dispersione e del moltiplicarsi di identità. De Sica, prima di diventare regista, è stato attore e cantante (come non ricordarci della canzone Parlami d’amore Mariù), poi attore e regista contemporaneamente (Maddalena zero in condotta, del 1941, Teresa venerdi, dello stesso anno, Un garibaldino in convento, del 1942), ha partecipato a pellicole non degne del suo talento per far fronte ai debiti di gioco, passione che ha riportato in maniera giocosa in diversi suoi personaggi cinematografici, come ne Il conte Max e ne L’oro di Napoli. Divorziato dall’attrice Giuditta Rissone, pur essendosi risposato con l’attrice spagnola Maria Mercader in Francia, De Sica non ha mai saputo rinunciare alla sua prima famiglia e ha avviato così una doppia “relazione”, con doppi pranzi nelle feste.
L’eredità artistica e dispersiva di Vittorio De Sica è strettamente legata alla napoletanità, con il suo romanzo popolare e con la sua sceneggiata, e alle vicende cinematografiche dello sceneggiatore Cesare Zavattini, con il quale ha dato vita a capolavori universali senza mai cadere nella becera ideologia, di cui purtroppo soffrono diversi autori intellettualoidi nostrani, ma andando sempre alla ricerca del dato umano, aspetto che ha fatto sì che i film del regista fossero considerati “un’incarnazione dell’essenza del Cristianesimo”. De Sica ha sempre sentito il bisogno di raccontare la gente e il vero, la realtà, e viveva il proprio mestiere come un dovere morale; sulla stessa onda del suo sceneggiatore Zavattini, del resto. Attraverso il suo cinema, De Sica, come altri neorealisti, ha segnato l’avvento di una nuova estetica nella coscienza collettiva ed esistenziale dell’uomo: si prende atto del disagio ontologico dell’essere umano, quello stato in cui si capisce che non esiste un agire, un fare che possa migliorare la nostra condizione. E questo si riflette nei suoi film. Il contesto in cui sono nate le opere neorealiste è quello del verismo melodrammatico ma la sostanza contiene qualcosa di più profondo e di inatteso: si assiste ad una lucida ed amara riflessione in pubblico senza falsi pudori e moralismi, sulle sofferenze di tutti gli individui, buoni o cattivi che siano.
Vittorio De Sica e Gina Lollobrigia in una scena dal film “Pane amore e fantasia”
Con I bambini ci guardano (1943) di De Sica e con Ossessione, dello stesso anno, di Visconti, infatti non si pronunciano giudizi, si accetta ciò che il destino ci riserva e si pratica la virtù cristiana della compassione anche verso chi, grande novità, non lo merita. Sia De Sica che Visconti si sono trovati sulla medesima strada che in realtà è stata percorsa anche Rossellini. Tutti e tre si sono preoccupati infatti di dissipare quel groviglio di equivoci che la critica ha accumulato riguardo il neorealismo, per il quale non è stata solo questione di girare “dal vero”, in mezzo alla gente, preferendo uomini comuni ad attori professionisti. Questi aspetti non sono altro che conseguenza di un complesso di circostanze, di culture, di costrizioni che il dopoguerra ha rovesciato sul cinema.
Se Rossellini è stato il regista “stoico” del neorealismo, De Sica ne ha rappresentato il lato sentimentale. Ha iniziato come simpatico attore del teatro leggero e delle commedie di Mario Camerini (Gli uomini che mascalzoni…del 1932, Darò un milione del 1935, Il Signor Max del 1937, Grandi Magazzini del 1939) nonché di altre numerose commedie, soprattutto in coppia con la diva Assia Noris, che i “telefoni bianchi” gli hanno offerto; poi l’incontro, che si rivelerà felice, con il grande Zavattini.
Uno straordinario Vittorio De Sica nel film “Il Generale Della Rovere”
I film desichiano scorre senza asprezze, sobri anche dei momenti patetici; pensiamo a Sciuscià (1946), vincitore di un Oscar, che narra con immensa delicatezza l’avventura da fiaba di due lustrascarpe romani nel periodo più drammatico del dopoguerra: finirà anch’essa in tragedia. Qui Zavattini si abbandona, nell’invenzione di partenza (i due ragazzi sognano di comprarsi un cavallo bianco con i loro risparmi) alle risorse del suo essere spesso giocoliere, ma De Sica lo tiene a freno, inducendolo a mettere a disposizione la sua fervida fantasia a servizio della drammatica esperienza che vivono di due protagonisti. Due anni dopo De Sica racconta un’altra indimenticabile fiaba metropolitana: Ladri di biciclette. Qui il regista consegna delicatamente la storia di un padre disoccupato e del suo figlioletto, a Roma, alle sue strade, ai suoi mercati, e lo fa con commozione e pudore. Quattro anni dopo il regista asciuga il suo stile, rendendolo meno elegiaco e Zavattini rinuncia al gusto del gioco; insieme allestiscono un contesto reale; nasce un altro capolavoro: Umberto D. (che viene da un’altra fiaba metropolitana, il surreale Miracolo a Milano, del 1951, Palma d’oro al Festival di Cannes. La vicenda dell’anziano pensionato cacciato di casa perché non paga l’affitto non è che un aneddoto. In realtà Umberto D. è un tragico documento sociale, il protagonista e la servetta sono vittime dell’ingiustizia ma non sono abbastanza esperti per opporvisi; i loro nemici sono, senza differenze ed ipocrisie, sia la Roma piccolo-borghese che quella popolare: volgare ed egoista. De Sica vuole essere più oggettivo e ci riesce, il suo sguardo è spietato, appoggiandosi ad un’impostazione narrativa classica di stampo hollywoodiano.
Una scena dal film “Umberto D.”
Col passare degli anni il regista, dopo aver riprodotto senza successo ultimi scampoli neorealisti: Il tetto del 1956 Il Giudizio Universale del 1961 (ma è anche diretto magistralmente da Rossellini ne Il Generale Della Rovere del 1959 e recita con Totò ne I due marescialli del 1961) e successi commerciali come Il boom, Ieri, oggi, domani,entrambi del 1963, Matrimonio all’italiana, del 1964, I girasoli del 1970, approda ad un cinema più intenso, manieristico che culmina nell’Oscar per Il giardino dei Finzi Contini del 1970, film della discordia tra lui e lo scrittore Bassani che non riconosceva lo spirito del suo romanzo dell’omonima pellicola.
Ma cosa ricordiamo maggiormente di Vittorio De Sica oltre agli imprescindibili capolavori neorealisti che hanno reso grande in tutto in mondo il nostro cinema, facendo storcere il naso alla D.C., secondo la quale il grande regista, attraverso i suoi film, dava un’immagine che non faceva onore all’Italia? Senza dubbio la sua capacità di far rendere al massimo gli attori che dirigeva, basti pensare alla strepitosa interpretazione, che le è valso l’Oscar, di Sophia Loren nel La ciociara (1960).
Di De Sica attore oggi restano la simpatia del protagonista di Pane, amore e fantasia o de Il processo di Frine, la commozione de Il Generale Della Rovere e una grande umanità che ha saputo trasmettere soprattutto ai suoi attori, primi fra tutti Marcello Mastroianni e Sophia Loren. A chi oggi, vedendo Ladri di biciclette piuttosto che Umberto D., afferma: Dov’è il capolavoro? rispondiamo che la genialità di De Sica sta nell’aver riunito dentro di se tante anime che hanno rappresentato il nostro Paese attraverso i suoi momenti più tragici ed esaltanti, avendo come stella polare un’idea pura del cinema che si manifesta in uno sguardo nitido ed immediato sulla realtà, più potente di un effetto speciale, che lo rende universale ed immortale, che lo pone nell’Olimpo artistico dei “maestri di cinema” e non dei pittori della domenica.