Il primo trimestre, come ho già narrato nella precedente puntata, lo trascorsi ancora ad Arborea.
Il secondo trimestre, o forse, per meglio dire, da gennaio a marzo frequentai alla scuola media del mio paese.
L’anno scolastico lo conclusi, come già accennavo in precedenza, alla scuola media statale “Cima” di Spadafora, in provincia di Messina.
Il motivo della partenza per la Sicilia l’appresi solo da grande.
In pratica mio padre, siciliano d.o.c., si era ammalato del “mal di Sicilia” e gli era venuto in mente che sarebbe stato meraviglioso trasferire, insieme alla famiglia, i suoi affari nel paese natio. Essendo comunque un uomo prudente, di quel genere che, lasciando la via vecchia, sanno ciò che lasciano ma non quello che trovano, optò per un approccio morbido.
Tramite un suo caro amico d’infanzia, Pippo Rasà, (che ricordo ancora con tanta simpatia, unitamente alla sua bella famiglia) trovò in affitto un immobile ampio e capace, ad uso misto, residenziale e commerciale, e mandò in avanscoperta una parte della famiglia.
La testa di ponte, per così dire, era composta da: mia madre, addetta al negozio e alla famiglia; io, il maggiore dei figli minori, in pratica vice-capofamiglia (questo ruolo sarebbe ricorso nella mia adolescenza); e, a seguire quattro dei miei fratelli minori (praticamente tutti i più piccoli, all’infuori di uno, che fu mandato a fare compagnia a mia nonna, nel paese d’origine di mia madre, nel Sulcis-Iglesiente).
Del viaggio ricordo soltanto la 1100 Fiat familiare con mio padre alla guida che veniva imbracato in una rete enorme ed issato a bordo con una gru (le navi Tirrenia, all’epoca, infatti, non avevano ancora la poppa ribaltabile per consentire un agevole imbarco agli autoveicoli e, così, si ricorreva al metodo che ho descritto.
Poi mio padre ripartì. e per me fu una strana primavera quella del 1967.
I giovani compaesani di mio padre, nonostante la chiara origine del mio compagno, iniziarono a chiamarmi “U Sardignolu”. a me non piaceva nè il termine in sé, nè il modo con cui quei ragazzi lo pronunciavano. Grazie alla mossa segreta, già sperimentata al mio paese natio con il mio rivale capobanda Rodolfo, ne mandai a gambe all’aria più di uno. E presto, non so se per timore o per rispetto la smisero di usare quel termine offensivo; ed io mi integrai bene nei diversi gruppi. All’epoca raccoglievo le figurine dei calciatori. Non avendo il coraggio di chiedere i soldi a mia madre per comprare le figurine (nella mia ingenuità, capivo comunque che i soldi incassati nel negozio non erano sufficienti), mi ingegnai a vincerli al gioco. Si giocava nel cortile della chiesa, “a soffio”. Il gioco consisteva nell’appoggiare al muro un mazzo di figurine e nel soffiarlo con la bocca alla base. Si vincevano quelle figurine che si riusciva a capovolgere con la soffiata. Riuscii a completare ben due Albums di figurine: con il primo vinsi un libro di narrativa (ricordo ancora il titolo: “L’ultimo dei Mohicani”); con il secondo vinsi invece un’armonica a bocca.
A scuola mi misero all’ultimo banco con un ragazzone argentino di nome Armando, i cui genitori, forse tentavano come mio padre un impossibile e nostalgico rientro in Sicilia, partendo però dall’altra parte dell’oceano. Armando parlava più lo spagnolo che l’italiano; ed io, così piccolo di statura, da quell’ultimo banco, e con quella compagnia (il simpatico Armando non faceva altro che parlarmi delle mirabolanti cose argentine) non seguivo certo le spiegazioni degli ottimi docenti di quella scuola. In quella seconda media, inoltre, non vi erano corsi di francese (la lingua straniera che io avevo nel mio curriculum) ma di inglese; per cui il francese lo preparai in privato.
Per fortuna la professoressa di lettere (di cui purtroppo non ricordo il nome), in seguito ad una mia ennesima scena muta, diede una così tremenda sferzata al mio orgoglio (mi disse letteralmente: “Basile, quando sei arrivato sembrava volessi spaccare il mondo!!! E adesso non fai altro che chiacchierare a vanvera!!!) che da allora, chiesto ed ottenuto di cambiare banco (con la scusa che non vedevo bene la lavagna) cominciai una lenta ma decisa risalita che mi condusse alla promozione a pieni di voti.
Ricordo ancora Armando, a giugno, davanti ai quadri di fine anno che commentava: “Ma come? Basile promosso ed io bocciato?!?”
Povero Armando. Non si era neanche accorto del mio cambio di passo.
Ricordo l’Equipe 84 con la canzone ”29 settembre”; Dalidà con “Bang, Bang!”; Adamo con “La notte”.
Quando mio padre si stancò di mandare soldi dalla Sardegna (dove i suoi affari andavano invece a gonfie vele) ce ne tornammo tutti a casa.
La macchina di mio padre fu imbracata nuovamente nella rete di corde robuste della Tirrenia e la famiglia fu ricomposta in quella che di lì a poco, grazie al boom della “Costa Smeralda” stava per trasformarsi da terra di confino e di esilio a paradiso di vacanze e di promozioni.