Certo il primo giorno di scuola non fu quello che uno può essersi immaginato nei suoi pensieri.
Trovammo infatti l’ingresso presidiato dai picchetti degli studenti scioperanti che impedivano l’accesso a qualunque studente, lasciando passare soltanto i docenti che non fossero già entrati con l’auto attraverso il carraio.
Le parole d’ordine che giravano tra gli studenti erano diverse e alle mie orecchie di studentello di primo pelo, suonavano quasi come oracoli di una divinità lontana e misteriosa. Alcuni sembravano anche semplici, nella loro formulazione: “Diritto allo studio”; “Scuola di tutti e per tutti“; altri erano rivestiti di un’aurea quasi mitica:”Fuori i baroni dalla scuola” (più tardi scoprii che lo slogan era rivolto all’università e che il barone Siviller, che al mio paese era stato degradato dai Savoia al loro arrivo in Sardegna, all’inizio del ’700, colpevole soltanto di essere da sempre fedele ai sovrani iberici, non c’entrava per niente); “Assemblea Permanente”; “Potere Operaio”; “Lotta Continua”; “Morte ai fascisti”; “Boia chi molla“.
Insomma gli slogans che si urlavano fuori dalla scuola erano tanti e per me, tutti, o quasi tutti, ancora incomprensibili.
Andò avanti così per qualche giorno fino a quando alcuni signori (più tardi capii che si trattava di agenti della Digos in borghese), spiegarono agli studenti che facevano servizio di picchetto al cancello , che avrebbero dovuto lasciare libero l’ingresso e consentire a chi non avesse voluto aderire allo sciopero, di entrare a scuola.
Così finalmente potei incominciare la mia carriera scolastica. Anche se, a onor del vero, per non rischiare di venire scambiato per un fascista o, peggio ancora, di venire considerato un boia, attesi che un buon numero di studenti, vecchi e nuovi, fosse deciso a interrompere la protesta, con la promessa che il Preside avrebbe concesso un certo numero di assemblee per poter discutere i problemi della scuola e di noi giovani studenti, se avessimo ripreso prontamente la frequenza (che per noi “primini” non era invero mai iniziata).
Così scoprii finalmente la mia classe. Si trattava di una prima super affollata. Eravamo oltre trenta, per lo più di sesso femminile. i miei compagni e le mie compagne venivano quasi tutti da Quartu S.E., da Pirri (che, precisavano i Pirresi, è come se fosse Cagliari; anzi “Pirri è’ Casteddu!), Selargius, Monserrato.
Mi ero già affezionato a questa classe allegra e rumorosa; mi ero già innamorato (senza che loro ne sapessero niente) di tre o quattro compagne e di una o forse due professoresse particolarmente giovani e carine. Mi piacevano inoltre le lezioni di italiano, di storia, di inglese; un po’ meno quelle di fisica e matematica, mentre mi affascinarono subito la dattilografia e la stenografia (che più tardi, ma io ero già passato dall’altra parte della barricata, sarebbero state soppiantate dal “trattamento testi” e, più tardi ancora, sino ai nostri giorni, dall’informatica); mi risultò invece ostica la computisteria, che negli anni successivi si trasformava in “tecnica”, e tale antipatia durò per tutti e cinque gli anni e si estese anche alla “ragioneria” (le due materie, oggi, si studiano unificate sotto il nome di “economia aziendale”).
Presto però arrivò la notizia che alcuni di noi sarebbero stati trasferiti e smistati in altre classi di nuova formazione e che un certo numero di classi avrebbero iniziato, con il sistema della rotazione, il doppio turno.
Ci fu spiegato infatti, in maniera alquanto sommaria e sbrigativa, che le aule non erano sufficienti ad ospitare tutti gli iscritti, dato l’alto numero dei nuovi studenti, e quindi, per evitare classi troppo numerose (più tardi si sarebbero definite “classi pollaio”) avremmo dovuto alternarci nella frequenza pomeridiana, dalle 14,30 alle 19,30. Tale turno avrebbe riguardato ciascuna classe, ma soltanto per uno, massimo due mesi, all’anno.
Più avanti negli anni successe invece che alcuni corsi venissero destinati a frequentare di pomeriggio tutto l’anno scolastico.
Ma questo fa già parte di un’altra storia.
9. continua…