La conosci la ballata delle passioni? La sensazione dell’assenza di limite che surroga il senso di morte. Il frequentare la paura di perdere per cacciare il terrore vero del vivere, di fermarsi e guardare cosa accade davvero intorno a noi. Si camuffa la vita per paura della morte, la si riempie fino a scoppiare, ma anche la curiosità trasale se guarda dietro un angolo scuro: la nostra impotenza desolante, cosa ci accade davvero.
Ho riempito la mia vita per anni. Da sempre. Poi si è costruita, nella pazienza dell’errare, una filosofia personale, qualcosa che permette di guardare il mare, oppure il colore dell’erba con una grammatica di regole affettuose. I pensieri scorrono, danzano di parole con senso di risonanza, che valgono per sé, per riconoscere e conoscere, e non si possono pronunciare. Un toccare, scivolare, fermarsi, immergersi in una persona, un fatto, una sensazione che non se ne andrà e poi ripartire. Nella mia filosofia del vivere, ciò che manca è molto più di ciò che c’é, ma non pesa. Verrà. Forse. Oppure no, ma allora non importa davvero. Lo so, lo dicono i delusi, gli insoddisfatti di me. Lo hanno sempre detto: se non mi vuoi non mi meriti.
Le parole, adesso, auto convincono a fatica, c’è necessità che i tasselli si incastrino per reggere l’edificio. Sono stanco di profezie che ci modificano per realizzarsi, abitudini care che diventano prigioni. Quando tutto questo emerge, allora c’è bisogno di andare, ovunque e comunque, basta sia oltre la paura che ciò che si conosce, a partire da noi, ci interroghi.
Andare è un bisogno, governabile ed incoercibile che sogna di azzerare. essere nuovi, non avere memoria del passato e del presente, impedire che cose e persone attivino ricordi, domande, possibilità: un rinascere adulti.
Forse.
Nell’andare resta la coscienza di sé, l’unico ambito da cui non si sfugge, e che, per davvero, non si vuole azzerare. E neppure il passato si vuole sfumare, nel tenere il buono di sé, piuttosto avere un vivere davvero nuovo per uscire dalla costrizione delle abitudini, dall’obbligo del ruolo, dall’immagine troppo conosciuta di sé.
Ti guardo in faccia, ti racconto la mia tempesta silente che ti segna, ti scuoto con le parole e tu, in silenzio, ascolti furia e richiesta d’ amore. Finché stanco, taccio e ti chiedo, solo con gli occhi, almeno d’aver capito. Ma sei solo uno specchio, una projezione sfuocata che si precisa. Con te posso mettere davanti quello che conta e che può essere condiviso davvero, la mia immagine, ad esempio, ma tu rifletti anche altro; quello che posso dirmi sottovoce, quello che m’accompagna e fa andare. Non invidio quelli che sanno dove andare, non invidio le certezze, neppure chi evita le domande, e neanche i collezionisti invidio. Nella mia confusione amo questa spinta ad andarmene, senza una meta che non sia me stesso, ma non per me solo. Condivido, estraendo parole giuste con fatica, selezionando molto gli ascolti, ma condivido profondamente. Nel guardarti nello specchio, cerco le tracce di ciò che sarà, non di quello che è stato. E andare, è libertà dal conoscersi, dalla noia di sé.
Anche col rischio della solitudine.
Dividere-con è chiedersi qual’è la spalla su cui vorresti mettere il riso e la disperazione. Se esiste, quello è il porto e il luogo in cui riposare.