“[..] io, ancorché multinazionale, darei l’intera Montedison per una lucciola”, così Pier Paolo Pasolini terminava Il vuoto del potere ovvero L’articolo delle lucciole nel 1975.
A distanza di quasi 40 anni queste parole risuonano ancora innovative, perentorie. Potenziale fonte di ispirazione per una lettura della società che non finge, che non copre, ma svela, comprende, attacca e si ribella
E così è stato per Stefano e Mario Martone, autori del documentario Lucciole per lanterne che segue con sgomento la storia dell’indifeso popolo cileno schierato contro i mostri delle Multinazionali.
L’incubo cileno inizia nel 1981, quando Pinochet privatizza la maggior parte delle risorse idriche del Paese. Successivamente, saranno imprese nazionali e multinazionali interessate a produrre energia idroelettrica ad impossessarsi dei diritti per lo sfruttamento dell’acqua.
In un gioco di soldi e di potere si è arrivati a HidroAisén, un consorzio formato dai gruppi ENDESA, controllata da Enel, e Colbùn. Il progetto HidroAisén prevede la costruzione di cinque grandi dighe sui fiumi Pascua e Baker, nella regione Aysén, nella Patagonia cilena e il trasporto dell’energia 2300 Km più a nord teso allo sfruttamento della maggior parte di questa da parte dell’industria mineraria.
La linea di trasmissione ad alta tensione dovrebbe quindi attraversare quattro parchi nazionali, otto riserve forestali, tre zone turistiche di interesse nazionale, sessantasei comuni per un totale di nove regioni e la vita povera e semplice di intere comunità indigene, la cui dignità umana ha ricevuto un prezzo.
Il documentario ricostruisce questi avvenimenti attraverso la lotta di tre donne che tentano di difendere la loro terra e la loro vita. Ad essere messa in discussione è in effetti la stessa sopravvivenza delle comunità Mapuche, che da oltre cinquecento anni popolano questi territori. E tutto ciò, per un’energia idroelettrica che non andrebbe nemmeno a soddisfare il fabbisogno della popolazione!
Disumane, le immagini che riprendono le proteste degli abitanti del posto appoggiati da diverse organizzazioni ambientaliste. Proteste che vengono represse con violenza. La stessa violenza attraverso cui il capitalismo coloniale vorrebbe saccheggiare una terra rigogliosa, ancora intatta, la cui ninfa vitale è strettamente legata alla vita umile e rispettosa delle comunità locali.
Mi piace citare ancora una volta Pier Paolo Pasolini, quando dice: “Non è affatto vero che io non credo nel progresso, io credo nel progresso. Non credo nello sviluppo. E nella fattispecie in questo sviluppo. Ed è questo sviluppo che dà alla mia natura gaia una svolta tremendamente triste, quasi tragica.”
E ancora:
“È evidente: a volere lo sviluppo è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo sviluppo, in Italia, è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia (l’applicazione della scienza) ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo sviluppo. Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di «poveri», di «lavoratori», di «risparmiatori», di «soldati», di «credenti». La «massa» è dunque per lo «sviluppo»: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita.
Chi vuole, invece, il progresso? Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare, appunto, attraverso il progresso: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato.
Il «progresso» è dunque una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo «sviluppo» è un fatto pragmatico ed economico.”
Ora: Stefano e Mario Martone con Lucciole per lanterne ci raccontano non solo della tragedia cilena e delle rapaci strategie coloniali tipiche del capitalismo multinazionale ma anche di questo unico e immutato concetto di sviluppo che, nei paesi industrializzati genera solo consumo – scostumato e inconsapevole consumo – e nei paesi del sud del mondo invece si abbatte come un uragano, trascinando con sé la vita di persone che rappresentano “eccezioni, resistenze, sopravvivenze”.
Dalila Lensi