Riflessi
30 aprile 2014 di Redazione
di Lorenzo De Donno
Massimo Rovereti, “Davanti al bar” (2010) – olio su tela
Ero riuscito ad evitarlo per un lungo tempo, tanto che ormai mi ero convinto che non sarebbe più accaduto che ci incontrassimo e che fossimo costretti a parlarci. Mi era stato abbastanza facile, in diverse occasioni, porre in essere delle manovre evasive. Quel pomeriggio, però, il viale era proprio deserto, tirava un forte vento ed iniziava a piovere. Ogni folata di scirocco umido scuoteva le querce, facendo cadere una piccola grandinata di ghiande acerbe che rimbalzavano sul marciapiede e poi rotolavano nella carreggiata. Una coppia di tortore era atterrata dalle fronde più basse di un albero e beccava, guardinga, la pastura di ghiande schiacciate dagli pneumatici delle auto.
Me lo trovai di fronte, a pochi passi. Impossibile evitarlo, impossibile inventare una scusa. Sapevo già che mi avrebbe preso per un braccio e che mi avrebbe proposto un caffè che non avrei potuto rifiutare.
Il bar era proprio lì, a due passi. Lo stesso locale dove compravamo i gelati e le patatine da piccoli. Nuovo allestimento e nuova gestione. Un bel banco di legno, chiaro e opaco secondo la moda del momento, lampade alogene sul soffitto che proiettavano sul granito scuro una luce dalla tonalità calda, quasi solare. Mensole di cristallo, fissate su una parete di tessere di vetro colorate, sulle quali erano allineate le bottiglie di liquore. Un grande monitor, sul muro di lato, sintonizzato su un canale che trasmetteva solo musica: video vecchi e nuovi che si susseguivano senza interruzioni.
Non sentivo il profumo del caffè, né quello “di nuovo” del legno, né le esalazioni dei mastici e delle vernici a stucco, da poco stese sui muri. Avevo la sensazione di avvertire, invece, l’odore di freddo e di muffa che impregnava quel locale trent’anni prima, il rancido degli scarti del caffè andati a male, celati sotto al bancone. Mi sembrava di rivedere anche il vecchio Nino, la sua difficoltà a lavorare dietro alla sua pancia ed agli occhiali da presbite. Una pancia che lo teneva distante dal banco e che lo costringeva a tenere le braccia sempre protese in avanti. Negli ultimi tempi preparava pessimi caffè con la macchina del vapore, ormai sgangherata e rattoppata, che aveva perso pressione e lucentezza, ed estraeva gelati economici, con la confezione sgualcita, da un frigorifero rumoroso come una Fiat 850. Un caffè che sapeva di amaro e di bruciato…
Eravamo così simili, da bambini. Stessi gusti, le stesse attitudini, le stesse passioni. Eravamo convinti che avremmo anche lavorato insieme, da grandi, che nessuno ci avrebbe mai separati.
Ci sedemmo ad un tavolino posto a ridosso di una vetrata.
-Che bella sorpresa, averti incontrato! – mi disse con un tono allegro e un po’ canzonatorio – esco ora da una riunione dell’associazione e non avevo proprio previsto questa pioggia. Scommetto che hai lasciato ora di lavorare, come al solito. Come vi chiamano nel vostro ambiente? Stakanovisti, aziendalisti… Tu a quale gruppo appartieni?-.
-E’ vero – gli risposi – Sono appena uscito dal lavoro, è tardi, ma non riesco proprio a liberarmi prima. Quello che non faccio la sera me lo ritrovo la mattina successiva sul tavolo e, credimi, non esistite un folletto che, durante la notte, mi liberi la scrivania dalle carte. Tu, invece, esci alle due del pomeriggio e ti permetti anche le attività sociali, il volontariato…Non hai mai lavorato con il fiato del padrone sul collo, perché ti paga lo Stato…-.
-Eh no! – mi ribattè – Non rinfacciarmi di aver seguito le mie inclinazioni e di essermi costruito la vita che desideravo. Sai bene com’è andata! Ricordo ancora la faccia stupita del professore di lettere delle medie quando gli comunicasti che ti eri iscritto ad un Istituto Tecnico. Ti disse che stavi commettendo un “peccato mortale”. Fui stupito anch’io e la presi proprio male, un tradimento… Non eri tu quello che voleva fare lo scultore e scrivere dei libri di arte? Sei diventato l’esatto opposto. Ma guardati, sei in…divisa, imbalsamato nelle tue giacche strette, con la giugulare compressa dal collo alla francese e dal cravattone. L’ossessione di mantenerti in forma a tutti i costi, fa parte del pacchetto? Mi meraviglio che il tuo cervello non abbia ancora subito danni irreversibili per l’atmosfera modificata che respiri e anche la tua faccia, consentimelo, sembra devastata dall’aria condizionata…-.
-Non ti rinfaccio nulla – gli risposi – c’è molto di vero in quello che dici, ma non sei giusto. Non dimenticare che eravamo ragazzini e che la vita reale ci induce a fare scelte razionali, anche se in contrasto con le nostre intime aspirazioni. Quante volte, grazie alla mia “carriera”, ho aiutato concretamente chi aveva bisogno mentre tu eri ancora impegnato a realizzare i tuoi sogni…All’epoca, tradito o no, anche tu hai tratto vantaggi dalla mia condizione e mi sembrava che avessi superato ogni rancore. Non è così? Quanto ai vestiti, si tratta anche di rispettare gli altri, di presentarsi a posto e gradevoli. Quando si ha un ruolo in un’azienda, quando ci si rapporta con i clienti, è quasi un dovere civico. Tu, invece, porti ancora l’impermeabile di cordura che avevo dismesso e che mi chiedesti quasi vent’anni fa. Per fortuna è ancora abbastanza ampio da coprirti quella pancetta che ti si intravede…-.
-E’ proprio quello! – mi rispose – Il tuo impermeabile verde. La cordura è un tessuto indistruttibile, ci fanno le vele delle barche. Mi va bene e lo porto ancora, perché a me serve per coprirmi. A te, cos’è che non copriva più quando lo hai lasciato in fondo all’armadio? Come vedi, abbiamo due modi ormai completamente diversi di intendere la vita. E non sono certo io ad essere cambiato. Per questa pancia ci vorrebbe una dieta e l’attività fisica che non ho mai fatto, lo so…Ma dovrei modificare le mie abitudini e sottrarre del tempo prezioso agli altri per un mio scopo personale. Non mi sembra ne valga la pena, non ora. Lascio a te la ginnastica…-.
Mi voltai, distratto dalla nuvola di vapore che si alzava dalla macchina del caffè e si disperdeva nell’ambiente. Un ragazzo con un grande ciuffo di capelli scuri sulla fronte ne sollevava ed abbassava le leve, con movimenti precisi, mentre sistemava le tazze sotto ai filtri. Pensai che quella macchina era bella come un’automobile americana d’epoca, con la carrozzeria verniciata di bianco e le cromature scintillanti.
-Come stanno i tuoi? – mi chiese, cambiando discorso.
-Bene, se la cavano – gli risposi – Sono indipendenti, come sempre. Con la scusa di non voler dare fastidio ai figli se ne stanno per i fatti loro. Premurosi sempre ma… vivono in un mondo tutto loro, un po’ fuori dalla realtà. Li lasciamo vivere tranquilli… E i tuoi?
-Cosa vuoi che ti dica? – mi rispose sospirando – Li vedo invecchiare di più ogni giorno che passa. Mi aspettano, mi telefonano. Sembrano rasserenarsi solo quando mi vedono. Non sono più tanto in salute, anzi sono certo che stiano anche peggio di quello che mi fanno credere… Li vado a trovare ogni sera e li trovo lì, dietro alla finestra, con le luci abbassate. Sai, gli anziani non possono essere lasciati a se stessi, non si può dare mai per scontato che preferiscano, che sia una loro scelta, quello che a noi fa più comodo…-.
Ormai era buio, complici le nuvole temporalesche. Non lo ascoltavo più ma seguivo le gocce d’acqua nel loro scorrere sulla vetrata. Dapprima lente, titubanti, incontravano altre gocce, ferme, sul loro percorso e le assorbivano. Aumentavano di volume, acquisivano velocità, diventavano un rigagnolo che precipitava verso il basso. Rimettendo a fuoco, mi accorsi che l’oscurità, fuori, rendeva il vetro come uno specchio che rifletteva la mia immagine. Non mi riconobbi, il volto riflesso non era il mio, era il suo. Mi alzai e pagai il caffè, un caffè che sapeva di amaro e di bruciato…