Considerato là e qui come un cult, The Reflecting Skin (1990) può vantare una stordente predisposizione nel catturare l’Immagine. Grazie al suo formato panoramico gli esterni esplodono sullo schermo e la lente della mdp si esalta nel certificare l’acceso contrasto tra il cielo cobalto e la sottostante terra dorata. Piena soddisfazione anche nel campo dei particolari che diventano finezze registiche di prim’ordine, dal viso insanguinato dell’incipit al tramonto (simbolico!) del finale, il concerto filmico, diretto alla grande trattandosi di un esordio, annovera note inqualificabili come le due autoctone che camminano a braccetto o come il feto finto trovato dentro ad un uovo. Due elementi che conferiscono una percentuale weird ad un’opera che comunque fa ripetutamente l’occhiolino alla dimensione del perturbante.
Giusto per mettere la pulce nell’orecchio a voi lettori, il sottoscritto con le parole che seguono non intende sminuire l’aura da culto che la pellicola merita, tuttavia si permette di segnalare due aspetti che poco si conciliano con il suo gusto personale. Il primo riguarda quell’accanimento, quel rincarare continuamente la dose nella composizione tragica della storia. Certo, la depurazione favolistica attenua il carico, ma una madre frustata, un padre pedofilo, un fratello che si innamora di un vampiro, la dipartita dei propri amici a causa di uno spietato gruppo di bulli, sono tutte componenti che producono un persistente squilibrio emotivo, possibili escamotage per calamitare la concentrazione spettatoriale. Il secondo aspetto è invece qualcosa di non traducibile in parole, qualcosa di simile all’espressione acritica “è un bel film/non lo è”. Riflessi sulla pelle è un bel film. Punto. Ma c’è anche una virgola: viste le carte in tavola poteva essere bellissimo, invece, per quanto mi riguarda, tutto si ferma uno o due passi prima del completo decollo empatico. È una questione di doxa, come sempre del resto.