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Riflessioni sull'arte: Mosaici tra inferno e paradiso

Creato il 04 settembre 2013 da Ellisse
“Mosaici tra inferno e paradiso” (alla Fondazione Tamo, Ravenna) La basilica ritrovata Domus dai tappeti di pietra modulati per linee parallele e figure geometriche romboidali intercalate da punti di incidenza a stella greca riflettenti di luce al suolo; concatenazioni seriali di motivi floreali, decorativi o astratti si distendono attraverso le pavimentazioni ritrovate, riportate in luce dell'antica basilica di San Severo a Classe ( VI secolo). Emergono per stralci, per parti o riquadri ripetuti e poi intercalati da incomprensibili zone di non-figurale, spazi bianchi, interstizi vuoti, zone di non-ritorno, di non restauro cedute all' indeterminato del fondo. Emergono dal bianco dei loro margini, emergono frammiste a queste spaventose macchie di polvere divorante, emergono come fossero intagliate, divorate dalle medesime nel gioco tra fondo e figura, tra l'opacità della loro più oscura provenienza, l'irrompere opaco dell'intonaco bianco e la trasparenza dei motivi musivi, ugualmente ritornanti come forme in movimento sulle pareti ancora affrescate della basilica. Riecheggiano riportati, reinseriti artificialmente in questo altro spazio architettonico antico e insieme dall'impronta fortemente contemporanea come apporto, innesto, nuova inclusione, non per quello che rappresentavano all'origine ma come negativi dei medesimi, vuoti simulacri, frammenti di mosaici pavimentali o affrescati in parte ritrovati negli scavi, in parte riportati alla luce e infine raccolti nella semi-oscurità di questo spazio singolare: sacrale vuoto, tale il sito d’un antica basilica e insieme artefatto, manipolato come può esserlo quello polimorfo d’una galleria contemporanea. Immagini in movimento di motivi mosaicati si proiettano sul suolo e sulle pareti d’ uno spazio disseminato d' altre opere contemporanee , a metà visibili, a metà cancellandosi in questo loro richiamo inesausto alla storia, al nostro modo di rapportarci ad essa, di accogliere e rifiutare, di tornare indietro e guardare oltre, d’un dialogo serrato quanto distanziante alla memoria. Dalla scrostatura d’intonaco intenzionalmente lasciata sul motivo originale, emergono non più figure o forme astratte ma segni, affioramenti come di tracce in negativo d’una presenza antecedente, d’un occultamento o sparizione, d’una immemore, obliterante quanto ineluttabile intuizione dell’antecedente, del prima, dell’originario. Bianchi interstizi prendono il sopravvento, assorbono motivi e figure come tabula rasa d’una memoria cosciente, rasoiata o ricoperta di polvere e intonaco, tale il fondale vivo, vibrante irrompe come pre-figurale, energia creatrice che non si investe in una forma finita ma nella semplice densità materica ad essa antecedente. Ancora il bianco è lacerazione, strappo sulla superficie come non-aderenza assoluta delle cose a loro stesse, di noi al mondo, come il senso di interstizi aperti sulla realtà, tra noi e la nostra possibilità di immedesimarci completamente ad essa partendo da una prima separatezza sancita tra le cose e le parole, il linguaggio e la sua possibilità d’essere o rinviare direttamente ad esse, d'essere tutt’uno con le medesime, di divenire le cose stesse. Racconta dunque, la pittura come il mosaico o implicitamente sembrano rendere conto, portare in sè la consapevolezza di questa dissonanza o aritmia evidente: i varchi aperti dalle cose alle cose, da noi a loro stesse, tra noi e la nostra possibilità d’essere direttamente, ingenuamente dentro l’avvenimento, con l’altro, in una totale, immediata adesione alla realtà tale che essa appare o si presenta ai nostri occhi. “Allettamento di tessere d’oro”, mosaico 2011 “Pietruzze gialle, rosse, bianche, trasparenti, azzurre e turchine e anche d’oro, dell’oro dei mosaici ravennati, verdi del mare e blu del cielo stellato di Galla Placidia” “ O la luce è nata qui o, catturata, qui vi regna libera”. Ori su vetro, ori su gocce di pioggia espanse e trasparenti simili a grandi lacrime di luce,  ori per tasselli incastonati, ori in grandi riquadri ascendenti di luce ricuciti insieme l'uno l'altro; diventano manto, tela o tappeto a distesa stellata, a distesa d'acqua su sabbia rilucente. Ori sul rosso-ocra d'un suolo bruciante come su varchi aperti di cieli chiari e trasparenti, nel riverbero di scintille solari in fluttuazioni marine, su fondali bruni di sabbie mobili intrisi. Ori di pietruzze e vetri frantumati, frammisti a mille altre polveri e reagenti; ori filtrati attraverso le vetrate spesse e opache delle basiliche, in repentini passaggi di luce per poi tornare alla penombra della loro quiete oscurante; d’una croce diademata, irradiante a distanza lassù, noi qui lontani dalla sua luce. Ori di terre bianche, terse o lavate, sommerse nelle acque saline in distese trasparenti e piatte, dai depositi granitici a dossi di sale riempite, a raso d'acqua, immobili, traslucide e riflettenti. Lapislazzuli, pietruzze di mille colori, composizione o ammasso di frammenti in vetro di varie forme e dimensioni:  lastre, pietruzze o lastrine intagliate, ora ricomposte insieme in linee ordinate per gradazioni cromatiche discendenti. Ritagliate per cocci, pezzi, intere lastre, pietruzze, tasselli, frammenti o filamenti; ricomposte in linea orizzontale, fila a incastro di forme e colori simmetricamente disposte  oppure lasciate al disordine apparente, all’ammasso o nugolo disperso, nel caotico darsi del loro tutto e del loro niente. “Mosaici tra Inferno e Paradiso” “La visione di Dio” Azzurro è questa forma monocroma, indeterminata, azzurro è il colore scelto per l’elevazione sull’oro del fondale mosaicato, passaggio verso l’alto mediando verso la visione di Dio tale nel canto XXXIII dei Paradiso l’ intercessione della Vergine per permettere all’anima la contemplazione dell’assoluto. Rosso d’una sfera infuocata al centro, fiamma di luce divina, volti ricompaiono appena accennati filtrati attraverso e dietro quella . Blu-azzurro mosaicato, forme mosse e aggettanti, in rilievo quasi dalla superficie volutamente lasciata all’indeterminato del loro misterioso manifestarsi nella più totale libertà di linee sinuose, ritmiche, musicali, astratte e in movimento; forma indefinita, dio o dea, volto dell’eterna creatura, tale l’ intercessione della Vergine che rivela al poeta amore e bellezza, infinita comprensione delle cose. La sua mediazione lo porta verso l’alto dove la vista diviene limpida, trasparente intensificandosi nel momento in cui la Grazia apre a lui la possibilità di contemplare l’essenza divina: folgorazione pura di luce là dove la memoria viene meno e la parola poetica resta il solo imperfetto, lacunoso mezzo per ritrovarla. Il Paradiso filtrato attraverso queste visioni a mosaico sono blu, ori, impulso all'ascesa, illuminazione divina, aurea densa e rispendente intorno alle figure, trasmutazione delle anime attraverso quella luce, è tutto ciò che è dell'ordine del moto verso l'alto, della trasmigrazione del pensiero attraverso colori puri, luminosi, dati in una profusione di luce, d’oro quasi dominante ovunque su fondali blu o ocra. Nella “croce degli spiriti beati” brevi tocchi di colore puro e giustapposto in arancio, rosso, bianco e giallo portati al fulcro della loro interna luminescenza creano un cerchio di luce irradiante dove la figura del Cristo scompare a tratti in controluce, sublimata, diffusa e insieme trasfigurata dalla potenza cromatica, dall’effetto contaminante del rosso-oro, tale la fiamma d’amore divino che Dante descrive proprio in termini amorosi di “fuoco vivo”, “d’ardente desiderio” “d’amore che muove il sole e le altre stelle”. Ancora nei mosaici ispirati al Paradiso dantesco compare la figura massiccia e folgorante di potere e di luce di Giustiniano dal profilo ingigantito, ispirato al muralismo messicano, nei tratti del viso intagliati in maniera essenziale, aspri e spigolosi, avvolto in questo manto di luce, accompagnato da Dante e Beatrice; detentore della parola del Vangelo e insieme, legislatore di quel codice di leggi su cui la società medievale modellerà tutti gli altri, Giustiniano è illuminato di luce divina in quanto colui che congiunge azione politica all’attuazione del disegno provvidenziale della divinità. Inferno “Quali colombe dal disio portate con l’ali ferme e alzate al dolce nido”[1] le anime di Paolo e Francesca sono viste uscire dalla schiera dei dannati per raggiungere Dante e Virgilio nel dettaglio della lastra mosaicata . Grandi tessere quadrate, non intagliate, enormi tessere quasi in rilievo danno vita a queste figure dai tratti essenziali, non rifinite, lasciate volutamente all’aspetto espressionista o fauve dei loro visi, dalle chiome agli abiti . Come graffianti striature su rosso porpora, dal vento portate, avvolte in un solo abbraccio, nelle tonalità del rosso una, del bluastro l’altra. “Dal disio portate”, anelanti, prese dentro questo vortice alato, avvolgente carezza o palpito che investe del proprio moto parabolico tutta la composizione in una spirale di colori purpurei, arancio e rosati. Anche dopo la morte violenta, nella dannazione eterna. Una scia luminosa è tracciata dalle figure all’unisono dentro questa parabola ascendente, portata verso l’alto, mentre due altre ai loro piedi, Dante e Virgilio, le accompagnano con il loro sguardo. Nel “l’aeree maligno” del girone infernale sono immersi nel fondale oscuro d’un eterna dannazione eppure ancora visti in questo moto ellittico acceso dall’irrazionalità della passione amorosa aprendosi quasi un percorso, un passaggio obbligato, riconoscibile anche visivamente nelle linee volteggianti, a vortice tracciate verso l’alto, ondulanti, morbide sulla scia aerea che attraversa dalle chiome, ai profili delineati, al paesaggio, l’intera composizione. In una visione mosaicata ancora più estrema le due figure sono viste in moto discendente, in volo, grigio-verde argenteo su fondo bruno, attraverso l’aria portate, due macchie, due esseri volteggianti, aerei, discendenti come creature alate, non più viste come umane ma come spettrali presenze sommandosi in varco discendente, in repentina linea diagonale, in pennellate piatte e veloci, nelle tonalità dominanti del verde, bruno o argento. La versione mosaicata de “Gli iracondi” di Signorini dall’evidente influenza cubista e picassiana , appare fortemente espressiva, espressionista al massimo grado nella quasi astrazione delle figure. Sono corpi a pezzi, a brandelli, loro stessi percuotendosi, percuotenti, “troncandosi coi denti a brano a brano, l’anima di color cui vinse l’ira”; nella resa volumetrica le masse morbide, aggettanti sulla superficie sono modulate in dimensioni spropositate negli effetti d’un imponente dinamismo. Cubista è il gigantismo delle forme mantenendosi tuttavia nella fluidità e morbidezza delle masse che voluttuose scelgono la linea spezzata; sono per pezzi, per brandelli di corpi dai contorni marcati, nella volumetria dei medesimi in rilievo, nello spezzato, nel riempimento della tela, nella dinamicità di linee e figure in costante movimento attraverso quella. “I Centauri” “Io vidi un’ampia fossa in arco torta, come quella che tutto il piano abbraccia secondo che avea detto la mia scorta; e tra il piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri armati di saette come solien nel mondo andare a caccia”[2]. Campiture cromatiche d’ un rosso invasivo sul fondo, in primo piano due centauri sullo sfondo dei dannati immersi in una grottesca, vivida atmosfera, bagno cromatico d’un purpureo infernale, sanguigno. Immersi nella fossa del Flegetonte i dannati galleggiano visibili solo per i loro capi dal fiume-fondale rosso esteso su tutta la superficie in una bidimensionalità pervasiva. In primo piano sono i centauri figure mitologiche a metà umani, a metà animali, vividi, maestosi nei loro contorni argenteo-grigi. Esseri biforcuti, doppi, fino al busto cavalli da cui si diparte criniera e testa umana, figure, mitiche, mostruose della commistione in una sola forma divenuti. Vividi, sanguigni, uscendo dalla bidimensionalità d’un manto rosso infuocato appaiono mosaicati in intarsio a tessere intere, irregolari, non ritagliate quasi, in rilievo uscendo dalla superficie della tavola, vividi, crudeli. Una bruma grigiastra e violacea a contornarli . L’inferno è visto ora nell’immersione in un rosso monocromo, ora in questi fondali grigiastri spenti, privi di luce, lasciati all’oscurità delle anime dannate, vaganti, condannate per l’eternità a subire la propria condanna, a perpetuare la propria pena. Non può che essere oscurità totalizzante, assenza di luce, forme spigolose e aspre, fondali bruni o cupi, figure violente o rabbiose, disdegnose, intagliate o taglienti, aspre e spinte alla deformazione dei tratti umani. Le figure si assimilano ad animali, si avvicinano al non-umano, al bestiale, al mostruoso spesso amplificate in questa loro dismisura anche nelle dimensioni, il mosaico ispirato alle “arpie”, per esempio, ravvolte intorno a arti divelti d’alberi con ali e artigli di pipistrello, colli e volti umani, sono viste nidificare tra rami esangui in un sinistro batter d’ali annunciando cattivi presagi. O ancora la visione di “Lucifero, imperator del doloroso regno di mezzo petto uscir fora de la ghiaccia”; qui la rappresentazione figurativa dantesca d’origine medievale si trasforma nell’immersione in un rosso totale, quasi monocromo, colore esorbitante, esasperante e primitivo nella sua linea d’emergenza, assoluta, netta senza compromessi, tale una miriade di tessere a reticolo incastonate dalla finezza e precisione d 'un orafo. Lo spazio letteralmente disposto su due piani diversi, divisi, sul retro le due figure di Dante e Virgilio appaiono appena delineate su un fondo rosso carminio oscurante, quasi retrocedendo, riassorbite dalla colata oscuro-coprente. L’emergenza visiva è in qualche modo data da questa linea nera che attraversa, strada, sentiero o coda dell’animale, tracciato nero delimitando per lo sguardo il passaggio verso un altro piano di visione, di surrealtà o d’apparizione figurale. Un altro piano scenico letteralmente dominato da questa macchia o forma luciferina di fuoco e ghiaccio frammista insieme come una parvenza del divino cambiata di segno nel demoniaco, nell’infernale. Fa pensare all’uso della de-figurazione nella pittura di Bacon, all’emergenza violenta del colore sul supporto-tela con la sua energia portando verso il “fuori”, oltrepassando e deformando il concetto e la finitudine della figura. De-figurazione voluta, violenta dell’indicibile, ammasso materico in rilievo per grandi tasselli incastonati l’uno all’altro, l’intercalarsi di sfaccettature colorate, di fasci, nugoli o ampi raggi nella sfera del giallo, dell’ocra, del vermiglio, dell’arancio o del violaceo ripercuotendosi in artigli, zanne, parti acuminate, masse irriconoscibili di materia nella voluta cancellazione della forma o nell’impossibilità d’una sua altra definizione. Fasci di colore, tasselli modulati, spiranti, aspiranti verso una dimensione verticale, un fuori-dalla-tela, presi nel vortice di materia-colore, nel processo lasciando della figura solo la sua macchia, la sua impronta non-umana, non-divina, primaria e non-figurabile. (elisa castagnoli) [1] Dante Alighieri, Inferno, V, 82-83) [2] Inferno, XII, 52-57

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