Osservando i suoi lavori scopriamo una grande varietà di mezzi utilizzati e forme espressive differenti: in Ego Show, del 2006, o Artist’s Song, del 2007, due performance in video e live, la mobilità e la vocalità rappresentano i perni fondamentali dell’operazione di astrazione richiesta allo spettatore. Nel documentario Distorted Heart, invece, o in Seeing Pilar, la personalità e la “presenza” dell’artista deflagrano nel rapporto con il mondo esterno. Nel primo caso un “cuore spezzato”, nel secondo una visita alla nonna, Pilar, a Manila, innescano una riflessione sull’emozione dell’essere umani.
Una delle ultime fatiche di Lilibeth Cuenca Rasmussen, Mobile Mirrors, è costituita da una serie di quattro manichini, coperti da moltissimi frammenti di specchi, e un performer che indossa una tuta anch’essa ricoperta di frammenti, e si muove nell’ambiente espositivo, creando riflessi, geometrie, ricombinandosi nello spazio.
La riflessione sul rapporto tra l’uomo, il suo ambiente, e i suoi simili, si fa centrale e investe la sfera dell’estetica e della contraffazione di sé, colonne portanti della società contemporanea di stampo occidentale. Lo specchio, del resto, è ormai il dispositivo di condanna e assoluzione per eccellenza.
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