di Matteo Boldrini
Dopo le sentenze di questi giorni sul processo Ruby si è tornati a parlare di uno dei punti caldi della politica italiana della Seconda Repubblica e cioè quello della politicizzazione della magistratura e di una possibile riforma della giustizia che ne diminuisca l’indipendenza e la discrezionalità.
Il potere giudiziario è stato a lungo accusato di politicizzazione, sia intesa nel senso di schierarsi a difesa di una precisa parte politica, sia, eventualità estremamente grave, di voler giocare un ruolo predominante all’interno dello scenario politico, ruolo che va ben oltre i compiti attribuiti ad esso. La storia di questa discussione affonda le sue radici in un passato molto lontano.
foto caffenews.it
Durante gli anni Settanta la magistratura veniva considerata, in particolar modo dall’estrema sinistra extraparlamentare, schierata su posizioni di estrema destra o comunque a difesa dell’ordine politico e sociale instaurato dai partiti di governo, in quanto si mostrava, a loro avviso, rigida verso le manifestazioni di piazza e molto più indulgente verso gli abusi della polizia e gli scandali dei partiti di governo. Successivamente è stato Berlusconi a rifare proprie queste argomentazioni, riportando un tema istituzionale come la giustizia sull’asse destra-sinistra, accusando le “procure rosse” di compiere indagini solo ed esclusivamente verso di lui con il fine di condannarlo e di eliminarlo politicamente.
Ma il momento indiscutibilmente più significativo in cui si è verificato uno scontro politica-magistrati è stato durante la fase di Tangentopoli, dove la magistratura ha svolto un ruolo di primissimo piano, divenendo un vero e proprio soggetto politico e sociale prima ancora che mediatico. A riprova dell’enorme ruolo svolto dai magistrati nel nostro Paese può essere citato l’alto numero di essi che decide di abbandonare la propria carriera professionale e di cercare fortuna in politica, molto spesso promuovendo soggetti politici incentrati sulla propria persona. Evitando la questione dell’accanimento giudiziario verso Berlusconi che, indipendentemente del merito della questione, è diventata soprattutto un motivo di campagna elettorale e di propaganda, viene da chiedersi se davvero nel nostro Paese ci sia uno scontro istituzionale tra poteri dello Stato.
Innanzitutto bisogna dire che l’ipotesi di uno scontro di poteri non è tuttavia così negativa o segnale di una decadenza forte della qualità democratica. La magistratura dal momento in cui la separazione dei poteri l’ha relegata nell’ambito di un potere giudiziario sostanzialmente indipendente dall’esecutivo, l’ha conformata come una forza di bilanciamento a favore dei cittadini contro gli abusi del potere di governo e costringendo al rispetto della legalità anche quei soggetti che si ritengono investiti direttamente dalla sovranità popolare. Essa si configura dunque come un vero e proprio contropotere con funzioni di limitazioni e di bilanciamento istituzionale. Sotto questo punto di vista diviene quindi assai probabile ed in una certa misura fisiologico uno scontro tra le varie istituzioni di una democrazia, senza che se ne tragga direttamente la conclusione di una scarsa qualità etica e morale della politica o di una invasione di campo da parte di aree appartenenti a poteri diversi. In questo caso un’alta indipendenza riesce a produrre una maggiore efficienza del sistema politico in quanto mette il magistrato in condizione di perseguire i reati ad ampio raggio (obbligato anche dall’obbligatorietà dell’azione penale) senza dover cedere ai condizionamenti politici che potrebbero venire da più parti politiche, viceversa una minore indipendenza può significare minore efficienza nel perseguire i reati commessi da esponenti politici, con una diminuzione contestuale di qualità democratica.
Un chiaro esempio ne è la Francia contemporanea dove i vari scandali per finanziamenti illeciti che hanno colpito l’amministrazione di Chirac sono passati generalmente inosservati anche grazie al maggior controllo sui pubblici ministeri che l’esecutivo può vantare. L’indipendenza, e può sembrare ovvio dirlo, è dunque un valore fondamentale su cui si basa l’attività della magistratura non solo giudicante ma anche requirente, la cui diminuzione rischia di minare la sua stessa capacità di azione. Tuttavia dobbiamo stare attenti a non cadere nell’estremo opposto. Il giudiziario è soltanto uno dei poteri dello Stato, così come non deve esserne subordinato, esso non deve in alcun modo poter prevaricare gli altri. Non bisogna cadere nella tentazione di idolatrare il rispetto di una legalità astratta, svilendo contestualmente la produzione e l’applicazione della legge stessa. Proprio per garantire l’imparzialità è necessario che coloro che prestano servizio in magistratura, mantengano un livello di professionalità alto, evitando, una volta presi dal giudicare i membri della classe politica e partitica, di cadere nel tranello di sentirsi investiti del compito di riforma del sistema politico.
Ci sono stati molti casi in passato (e molti sotto anche i nostri occhi) di magistrati che, affezionatisi alle telecamere quanto all’aula di tribunale, abbiano fatto propri i termini della retorica dell’eroe solo, in lotta contro il sistema corrotto ed abbiano poi scelto di scendere direttamente in campo spesso con soggetti politici costruiti intorno alla proprio persona, svilendo in questo modo tanto la propria professione quanto la propria attività. L’eroismo stesso è una qualità che mal si addice a tutti coloro che lavorano in una pubblica amministrazione e che servono lo Stato, per i quali è molto più utile e funzionale all’interesse pubblico essere dei professionisti che svolgono il proprio lavoro con serietà e professionalità.
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