É strano come ci si possa stupire di qualcosa che si dovrebbe dare per scontato e invece… insomma, stamani durante la solita ora di supplenza, Inglese che mi ha preceduta mi dà delle indicazioni per il lavoro da far svolgere ai ragazzi nella mia ora. Non sono una supplente di quelle che “ Fate quello che volete purché in silenzio “. I silenti nella scuola non esistono, non ci sono tra i docenti – Italiano che ieri l’altro, mentre mi comunicava la partecipazione ad una mostra della sua classe, ha spostato una massa notevole d’aria e con questa anche me, a momenti, costituisce l’esempio tipico della docente gridazzante e questo vorrà pur dire qualcosa! – e tra i ragazzi il mormorio non è abituale e il presunto “ Parlate a bassa voce “ produce nel breve volgere di qualche minuto lo stesso effetto di una cacofonia sommaria, come di orchestra che si riscalda nel golfo mistico, fino ad arrivare ad una ouverture completa di tutti gli strumenti e senza neppure il benestare della bacchetta sullo spartito del direttore d’orchestra, ché il direttore d’orchestra se ne guarderebbe bene di incrementare un vocio che al quel punto è una faccenda terribile per l’udito di chiunque. Allora come mi è ben noto evito l’ora di pausa supplenza e lavoro con i ragazzi. Dopo aver ricopiato un brano d’inglese, la bimba che ho di fronte alla cattedra ripone il libro in una specie di custodia sommaria fatta di una carta plastificata trasparente e tenuta insieme da nastro gommato. Guardo l’obbrobrio e le chiedo per quale ragione ha creato quel contenitore invece di ricoprire il libro, magari con lo stesso materiale, ma rilegandolo. Lei mi guarda e non capisce che cosa io voglia dire. Le chiedo di portarmi un foglio di quaderno e il suo diario, così da mostrarle che cosa intendo. Il diario è uno di quei così multicolor che costano solitamente quanto un libro di narrativa in brossura, insomma lo spreco fatto diario. Le dico di starmi vicina mentre lavoro e di badare attentamente a quello che faccio in modo che lei possa replicare a casa la procedura. L’atto del rilegare attira l’attenzione, a quel punto, di una bella fetta di classe. Terminata la prima rilegatura la bimba è realmente soddisfatta di avere un diario dalla copertina immacolata e lo mostra come un vergine trofeo. Tutti a quel punto vogliono il diario immacolato perché “ ‘ssore’ poi sulla copertina bianca posso disegnare tutte le festività che ci sono; a natale un albero addobbato, a carnevale le maschere… “ e tutti gli altri cominciano a sbizzarrirsi sull’uso creativo della copertina bianca. A turno tutti vengono a farsi rilegare il diario. Racconto loro, perché me lo chiedono, per quale motivo sono capace di fare una rilegatura in quel modo, l’unica cosa che mi ha insegnato mio padre quando ero piccola – e non so neppure bene come mai lui lo sapesse fare – insieme alla fattura del bordo ondulato ad un cerchio in latta per i tegamini della focaccia – i miei erano piccoli e servivano per giocare con le bambole. E quando scoprono che la mia abilità nel rilegare è qualcosa di davvero datato, la cosa li stupisce ancora di più. E mi accorgo che anche una piccola cosa banale, come rilegare un libro, unisce un adulto ad un bambino, li lega in un fare comune che solidifica i rapporti affettivi. Immagino genitori incapaci di usare le mani per creare e capaci di usare le mani magari solo in modo improprio. Alla fine dell’ora mi si avvicina G. Cerca un contatto fisico, mi circonda la spalla con un braccio e mi dice: Grazie prof. Poi mi dà un bacio sulla guancia. E ti fanno pure commuovere, accipicchia!