Infine, una mattina mi sono svegliata e ho preso consapevolezza di dover fare qualcosa, porre rimedio a quel buco immaginario che sentivo nel cuore.
In passato, l’essere innamorata di qualcuno non mi aveva mai trattenuto dall’avere degli amanti. Riuscivo a distinguere, senza effetti collaterali, il sesso – funzione meramente fisiologica (e pertanto necessaria) – dal sentimento romantico – inevitabile conseguenza di uno spirito deviato dall’abuso di letteratura – e ad indirizzare il bisogno e l’emozione ciascuno verso il più appropriato obiettivo. Ero andata a letto con uomini belli e svuotati da qualsiasi barlume di tenerezza. Mi richiudevo alle spalle la porta di casa loro al massimo un paio di volte e poi smettevo di rispondere alle loro chiamate, fingevo di non conoscerli se mi capitava di incontrarli, li allontanavo senza motivo. Sull’altro fronte, avevo amato uomini complicati e ambiziosi. Tormentati e difficili da raggiungere. Quando poi li raggiungevo, finivo con l’annegare nella delusione. Prosciugavano la mia passione e i miei entusiasmi. Il sesso con loro era privo di slanci o barlumi d’infinità.
Poi, una sera di tanti mesi or sono, ero incappata in qualcosa di diverso. Per una come me, la cui forza stava negli schemi mentali e che con l’improvvisazione sbandava irrimediabilmente, il finale era scontato. Il mio giovane amante mi aveva guardato con i suoi occhi dorati e mi aveva chiesto di poter restare a dormire. Era un venerdì sera investito da un tempo da lupi. E lui se n’era andato via soltanto alla domenica sera. Mi aveva mostrato qualcosa che non sapevo – o forse avevo soltanto scordato. Che si poteva contemporaneamente essere amante, amica e innamorata di un uomo. Che io e lui avremmo potuto essere tutto, senza che io mi lasciassi prendere dall’inquietudine o dall’insoddisfazione.
Nel giro di un pugno di mesi, questo giovanotto aveva messo in discussione le mie certezze e poi era partito e a me era rimasto solo un senso di perdita, vischioso e resistente. Nonostante la sua assenza, lui era rimasto avvinghiato ai miei pensieri: alla mattina, appena sveglia; mentre mi ritoccavo il mascara davanti allo specchio; mentre, appoggiata allo stipite di una porta, giravo assorta la paletta nel bicchierino mezzo pieno di caffé; alla sera, prima di crollare addormentata. Si intrufolava nei momenti in cui soppesavo il fulgore dell’estate e nelle serate tra amici. E io non ero più riuscita a provare desiderio per nessun altro e avevo respinto con una naturalezza disarmante le occasioni che s’erano presentate. Che si trattasse di elaborare nuove fantasie romantiche o farmi venir voglia di scopare, non ci riuscivo. E non mi restava che constatare l’impossibilità di riuscire a ripartire. Non c’era diversivo che fossi in grado di adottare.
Così, una mattina mi ero svegliata e il vuoto era così forte che mi sembrava davvero di avere un buco nel cuore ed era chiaro che avrei dovuto far qualcosa. Una cosa qualsiasi.
Avevo pensato che concentrare tutte le energie sul lavoro mi avrebbe aiutato a sbarazzarmi dei miei vuoti. Un bel cliché, facile facile. Non mi era venuto in mente null’altro, niente che fosse rischioso o immorale. Insomma, niente di meglio. Però, era sempre qualcosa.